Era il 4 novembre del 1918 quando cessano ufficialmente le ostilità tra l’Italia e l’Austria-Ungheria. La massiccia offensiva italiana, inaugurata il 24 ottobre, aveva ottenuto il massimo successo con lo sfondamento del fronte a Vittorio Veneto e l’entrata delle nostre truppe nella Trento finalmente «redenta» (3 novembre). Comunque la si pensi, l’enfatico bollettino della vittoria del generale Armando Diaz («La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta») resta una pagina importante della nostra storia. L’Italia era riuscita a cogliere una vittoria dal sapore storico, bagnata dal sangue e dall’eroismo dei suoi soldati, riscattando in parte le vicende spinose e tragiche che ne avevano segnato la giovane storia, come Caporetto e, più indietro nel tempo, i difficili conflitti risorgimentali o la disfatta di Adua.
Il mito della Vittoria
Celebrato inizialmente con enfasi, il mito del 4 novembre è andato sfumando con il tempo, in parallelo con le spietate critiche verso la guerra provenienti da alcuni ambienti cattolici o marxisti, tesi a sottolinearne l’«inutilità» o gli interessi delle classi dirigenti quali uniche cause dello scoppio delle ostilità. Inoltre, molte ricerche recenti si sono soffermate sull’inettitudine degli altri comandi o sugli aspetti traumatici e psicologici che coinvolsero l’intera popolazione italiana (ed europea), tanto che della Prima guerra mondiale sembra rimanere ai nostri giorni solamente l’immagine di un assurdo bagno di sangue.
Per quanto la logorante vita delle trincee e le numerose battaglie abbiano suscitato tremende tragedie, che sarebbe inumano e assurdo negare, le letture improntate alla logica dei diritti umani e del cosmopolitismo, che leggono il passato con gli occhi del presente, aiutano a capire gli eventi nella loro complessità solo parzialmente. Se «ogni vera storia è storia contemporanea», come ammoniva Croce, allora si può intuire come la linea guida storiografica tesa a ridicolizzare qualsiasi interpretazione legata all’idea di orgoglio nazionale, sia figlia dell’attuale critica ai concetti di «patria» e «identità nazionale», minuziosamente “decostruiti” dalla maggioranza del ceto culturale e accademico e indicati quali intrinseci portatori di discriminazioni e violenze. Questa stessa impostazione ha portato alcuni studiosi a sostenere la tesi che fosse stata proprio l’Italia a dare il via alla Grande Guerra, per via della scossa sismica dettata dalla guerra italo-turca intrapresa dal Regno nel 1911 (in primis il libro di Cardini e Valzania, La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la Prima guerra mondiale) Una evidente forzatura che non tiene conto della crisi del complesso sistema di alleanze dell’epoca e dell’architettura degli Imperi multietnici, dietro cui covavano le pulsioni nazionali. Inoltre, il nostro paese era un attore secondario rispetto ai dominatori dell’800 e del primo ‘900, che scatenarono il conflitto mondiale per proteggere in primis il proprio ruolo internazionale, che consideravano minacciato. Tanto più che l’Italia entrò nel conflitto quasi un anno dopo l’inizio delle ostilità del luglio ’14. Con l’aggressione libica, così come con altri passaggi militari e diplomatici di quell’epoca, il nostro paese aveva inteso affermare e ritagliarsi un ruolo mediterraneo, considerato imprescindibile per la stessa esistenza dello Stato già da politici come Cavour e Crispi. Un tema ricorrente in maniera quasi ossessiva dall’Unità ad oggi, passando per gli anni del fascismo, basti leggere in proposito i lavori di Eugenio Di Rienzo e Marco Valle. C’erano inoltre questioni territoriali che agitavano da tempo taluni strati della popolazione e ambienti politici quali quelli del nazionalismo, in maniera non troppo dissimile da quello che accadeva in numerose entità nazionali di quel controverso frangente storico.
Per contribuire ad ampliare e stimolare un dibattito a proposito di queste diatribe, in particolare sul significato della guerra del ’15-’18 per l’Italia, non sarà inutile citare le parole di Fabio Andriola, direttore della rivista «Storia in Rete»:
Certo i morti si son contati a centinaia di migliaia, ma sono morti non per conquistare un paese straniero, per occupare, sfruttare e deportare popolazioni pacifiche, per depredare opere d’arte, industrie e campi stranieri. Sono morti per portare a compimento una cosetta da niente per alcuni. Una cosetta che si chiama Unità nazionale e che si è sempre pronti a rivendicare, giustamente, quando qualcuno, da qualche parte dell’inquieto pianeta Terra la minaccia o la nega a piccole enclave, a minoranze etniche, a paesi economicamente sottosviluppati. Basta che certe rivendicazioni non siano in capo, ieri come oggi, all’Italia: allora diventano populistiche, revansciste, “nazionaliste”, antistoriche.
Trincee e identità italiana
Potrebbe sembrare quindi che non solo avventatezza, economia e interessi, ma anche precise spinte ideali (sempre più sottovalutate dai contemporanei) animarono i nostri connazionali in guerra, spesso anche negli strati più umili della popolazione. Le trincee diedero un impulso decisivo alla costruzione di quel sentimento nazionale comunitario che si era tutt’altro che affermato compiutamente, segnando forse il momento di massima coesione civile di tutta la storia unitaria. Si trattò della fucina della nostra identità, con tutte le sue luci e ombre, come hanno sottolineato Marco Cimmino (Il Centenario mancato. Come si sta snaturando il momento fondativo dell’identità italiana), Paolo Gaspari (Il senso della Patria nella Grande Guerra) e Francesco Perfetti (La Grande Guerra e l’identità nazionale). Oltre ad alcune rovinose disfatte, le battaglie e i momenti in cui tragedia ed eroismo si fusero non furono pochi: dalla dannunziana «beffa di Buccari» (10-11 febbraio 1918) alla battaglia del Solstizio (24 giugno 1918) passando per l’affondamento delle corazzata Santo Stefano da parte dei Mas di Luigi Rizzo (10 giugno 1918). In questo sanguinoso contesto, il piemontese e il siciliano, il milanese e il calabrese, il romano e il napoletano avevano combattuto e avevano vinto insieme, cominciando dolorosamente e faticosamente a incarnare quella nazione che fino ad allora era rimasta principalmente solo il sogno di letterati, poeti e minoranze attive di patrioti. Quest’ultima frase si riferisce a una vasta gamma di personaggi che da Manzoni, Oriani e Mazzini arriva fino ai nazionalisti, ai futuristi, agli «interventisti», un’agguerrita schiera di uomini che spinge per l’ingresso nel conflitto dell’Italia, interpretandolo come un’«occasione rivoluzionaria» che avrebbe consentito l’affacciarsi delle masse da protagoniste sulla scena sociale e politica, distruggendo il vecchio sistema «conservatore e borghese». Nel ’15, proprio le pressioni delle minoranze organizzate di intellettuali e agitatori contribuiscono ad accelerare le scelte del Re, di Salandra e di Sonnino, che «scavalcano» il Parlamento decretando l’intervento. E’ un vulnus gravissimo all’equilibrio e alla legittimità del governo liberale, che sancisce il fallimento del giolittiano progetto di allargamento della base sociale dello Stato, inaugurando una crisi di legittimità che contribuirà all’avvento del fascismo. Da qui in poi, infatti, nulla sarà come prima: il massiccio intervento dello Stato nella vita economica, l’irrompere delle masse nella politica («in quella concitata transizione si consumava il passaggio storico dalla società dei notabili alla società di massa», ha scritto Domenico Sacco), l’armamentario retorico, simbolico e ideale della guerra segnano confini entro i quali i vecchi partiti sono ormai tagliati fuori. Le ambizioni, le difficoltà e le esigenze dei reduci stentano ad essere raccolte da chi, come i cattolici o le sinistre, ha sempre avuto una vocazione internazionalista e un rapporto difficile col patriottismo.
A influenzare la decisione dell’entrata in guerra ci sono anche questioni territoriali, in particolare quelle «terre irredente» (Trentino e Venezia Giulia) che erano rimaste sotto il dominio straniero dopo la lunga epopea del Risorgimento. Per molti pensatori dell’epoca era una ferita aperta rimasta tale per i giochi di potere delle grandi potenze, ma che bisognava sanare alla prima occasione, così da ridisegnare dei confini percepiti come giusti. A questo proposito, alcuni protagonisti della storia nostrana sono i cosiddetti «irredentisti» che si distinguono sin dal ‘700 lottando in nome della completa unità degli italiani, animati dall’idea di creare confini «sacri» entro cui ravvivare la particolarità e la ricchezza della propria cultura. Con le loro diversità, nomi come Niccolò Tommaseo, Giovanni Prati, Ettore Tolomei, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa e Nazario Sauro emergono come le figure più interessanti e simboliche. Gli ultimi quattro presero parte al conflitto venendo catturati e uccisi dagli austriaci: in molti paesi sarebbero considerati dei martiri di una guerra di liberazione, senza troppo timore di urtare il politically correct, ma in Italia restano dimenticati. In ogni caso, il 4 novembre restituisce all’Italia Trento e Trieste ripagando in parte il loro estremo sacrifico e chiudendo quella che può essere definita una «Quarta guerra d’Indipendenza». Un conflitto da ricordare nei suoi errori e nei suoi drammi, ma anche e soprattutto nei suoi eroismi e nella suo ruolo per la costruzione di una Nazione di cui andare fieri. Proprio i recenti ricordi del milite ignoto segnalano una sensibilità patriottica profonda, popolare e difficile da soffocare in quanto parte integrante di ogni collettività storica che si rispetti e vuole “esistere” nel passato proiettandosi nel futuro.