Nella zoologia della cultura di destra (conservatrice, moderata, liberale classica), a cui anche noi siamo fieri di appartenere, una specie ancora piuttosto presente è quella dell’intellettuale che rivendica il suo essere antropologicamente diverso della sinistra. Se questa fa squadra, egli è individualista al limite dell’anacoretismo: e se ne vanta. Se i progressisti censurano, l’intellettuale di destra invece vorrebbe far parlare tutti, anche quelli che gli impediscono di parlare. Se la sinistra fa passare solo i suoi, egli invece ritiene che la destra dovrebbe premiare i meritevoli, anche se il concetto di merito ancora nessuno è riuscito a capire cosa sia. Se la sinistra è potere culturale, l’intellettuale di destra antropologicamente diverso ritiene che potere e cultura siano agli antipodi. Una tenuta assai nobile, da anima bella, ma che si preclude qualsiasi possibilità di ingaggiare la lotta politica: come di chi volesse attraversare lo stretto di Sicilia a nuoto senza bagnarsi. Tanto è vero che, quando poi la destra può promuovere nomine e incarichi, o finanziare iniziative, spesso indica o finanzia quelli di sinistra.
La malattia di quelle élite che si auto proclamano tali
Potremmo pensare che l’anima bella di destra sia il portato di una pluridecennale minorità di questa sfera culturale, da qui lo snobismo ed l’elitarismo, che è la malattia di quelle élite che élite non riescono a essere o che si auto proclamano tali.
Eppure anche negli Usa, dove il conservatorismo vanta ben altro peso che da noi, e dove ha esercitato un ruolo anche politico importante, assistiamo a una deriva di questo genere, quasi un vantarsi di essere happy few e di esserlo sempre di più
Lancia infatti l’allarme Carlos Roa su “American mind” del 9 settembre, che sembra dire, conservatori, svegliamoci, smettiamo di essere anime belle, cominciamo a imitare la sinistra: ingaggiamo la tattica della guerriglia culturale. A ragione l’autore scrive che la sinistra americana (ma il discorso vale anche per quella europea) utilizza le stesse tecniche della guerriglia maoista. Che sarebbero 1. Circondare il centro dall’ periferia 2. Rispondere colpo su colpo 3. Utilizzare le imprese per fare pressione sul governo 4 Arrivare al potere partendo dalla foresta. Roa spiega nel dettaglio come i liberal e i dem (ormai la stessa cosa) abbiano usato queste tecniche, apprese dai manuali maoisti, ritornati in auge nella Cina di XI, per combattere Trump durante la sua presidenza. E nessuno potrebbe seriamente negare che siano state efficaci: la sconfitta di Trump è infatti derivata non dalla mancanza di consenso o da un elettorato che intendeva punire il presidente, quanto dal fatto che Trump sia stato autenticamente circondato dalla guerriglia maoista dei media e dell’ecosistema culturale.
La “guerra partigiana” culturale
Ora, spiega l’autore, noi conservatori dovremmo organizzarci allo stesso modo contro la sinistra. E non serve dire che l’esercito conservatore è, sul piano mediatico e culturale, molto più debole di quello progressista. Ai fini della “guerra partigiana” culturale, il numero ridotto di truppe consente maggiore libertà ed agilità di movimento. Basta possedere le idee chiare e definite sugli obiettivi da raggiungere.
Visto che il testo è leggibile on line non ne proporremo la sintesi. Ci limitiamo tuttavia a citare un passaggio chiave, quello sull’ossessione di una parte dei conservatori di farsi accettare dal mainstream. Il che, secondo Roa, vuol dire non avere compreso come sia cambiata la lotta politica e quale sia la posta in gioco oggi: quella dell’età della polarizzazione, altro che pacificazione di Biden (che infatti ha epurato tutti i repubblicani che poteva epurare).
“Molti attivisti conservatori e numerose istituzioni sono ancora orientate a ‘battersi nella città’ invece che organizzarsi nelle ‘aree di base’. Ma quel che serve al movimento conservatore americano non sono giornalisti radicati a Washington. La vera battaglia nei prossimi anni si giocherà a livello dei singoli stati e non nella capitale… I conservatori dovranno costruire una narrazione competitiva, che offra voce a coloro che sono stati impoveriti dalla globalizzazione… E bisognerà fare in modo che sia una narrazione comprensibile, che racchiuda una visione e che sia qualcosa per cui la gente sia disposta a sacrificarsi”.
Altro che torre d’avorio o, per usare metafore tipiche di una delle tradizioni della destra, rifugiarsi nel bosco. Nel bosco si, ma per uscirne al fine di circondare la città. Fuor di metafora, cercare di far diventare mainstream la nostra narrazione e non annacquarla sperando che il mainstream, cioè la sinistra, ci getti dalla tavola un tozzo di pagnotta.
Bravo Professore. Non è proprio facile, però.