Crisi del globalismo e ritorno alla sovranità economica: il senso profondo della guerra militar-valutaria

L’articolo propone un’analisi critica dell’attuale assetto economico e geopolitico globale, prendendo le mosse dal tema della produzione e della delocalizzazione industriale. Secondo l’autore, la produzione non è un semplice processo tecnico, ma una leva strategica di redistribuzione del reddito e di coesione sociale. In questo contesto, la delocalizzazione totale – quando non giustificata da motivi funzionali ma guidata esclusivamente dalla ricerca del massimo profitto – rappresenta una fuga strategica dalle responsabilità territoriali e sociali delle imprese. Tale fenomeno può avere conseguenze negative per i paesi di origine, in termini di impoverimento economico, perdita di occupazione e riduzione della sovranità industriale.

Un’eccezione è rappresentata da quei casi in cui la delocalizzazione riesce effettivamente a generare sviluppo nei paesi di destinazione e a migliorare il benessere delle comunità locali, ma si tratta di scenari minoritari. In Europa, l’introduzione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance), obbligatori solo per alcune categorie di imprese, potrebbe diventare una leva per contrastare le delocalizzazioni opportunistiche e promuovere una responsabilità d’impresa più radicata e solidale.

Il discorso si sposta poi sugli Stati Uniti, dove i dazi imposti da Donald Trump hanno rappresentato una delle prime risposte concrete a decenni di deindustrializzazione e dipendenza dalle importazioni. Questi dazi vanno interpretati non tanto come espressione di un isolazionismo autarchico, ma come una necessità tattica di fronte al fallimento di un modello globalista fondato sulla supremazia del dollaro. L’articolo definisce l’attuale scontro economico e monetario come una vera e propria “guerra militar-valutaria”, in cui il dollaro, usato come strumento coloniale, è sempre più messo in discussione dall’emergere di nuove potenze e valute, come quelle dei BRICS e in particolare il Renminbi cinese.

La politica dei dazi, secondo l’autore, riflette anche il bisogno di reagire al mancato successo di certe azioni militari indirette contro alcuni paesi BRICS, e al contemporaneo fallimento nel costringere i partner NATO a investire sistematicamente nel riarmo. In questo scenario, l’Unione Europea si muove in maniera ambigua: da un lato supporta l’alleato americano, dall’altro promuove una difesa “autonoma” con richieste massicce di fondi per il riarmo, come i celebri 800 miliardi proposti da Ursula von der Leyen.

Il finale dell’articolo è fortemente critico: l’autore denuncia la sconfitta dell’attuale strategia occidentale, suggerendo che il conflitto con la Russia avrebbe dovuto essere evitato, e che la Brexit assume oggi una nuova luce come manovra preventiva. Come soluzione di lungo periodo, viene proposta la proprietà popolare della moneta come fondamento per una pace duratura e per un ordine economico più equo e sovrano.

Produzione, delocalizzazione e guerra militar-valutaria: una riflessione sull’attualità economica e geopolitica

di Massimiliano Scorrano

E mo so’ dazi.

Produzione, delocalizzazione e guerra militar-valutaria: una riflessione sull’attualità economica e geopolitica

La produzione non è soltanto un’attività tecnica o industriale: essa rappresenta anche un meccanismo fondamentale di redistribuzione del reddito. Quando si parla di esternalizzazione, è importante distinguere tra il trasferimento di singole fasi del processo produttivo verso contesti più capaci — operazione che può avere anche una logica economica e funzionale — e la delocalizzazione totale di interi processi, spinta unicamente da logiche di profitto. In quest’ultimo caso, siamo di fronte a una fuga strategica volta a massimizzare i margini, spesso a scapito delle economie locali di partenza.

Tuttavia, se la delocalizzazione contribuisce a generare benessere e migliori condizioni di vita nei territori coinvolti, essa può avere anche un senso economico e sociale. Ma non è questa, purtroppo, la regola.

Nel contesto europeo, i criteri ESG (Environnement, Social, Governance), ad eccezione di istituti finanziari e aziende quotate — per cui sono obbligatori — restano su base volontaria. Il loro scopo dichiarato è quello di imprimere un’accelerazione simile a quella del Green Deal, ma c’è un ulteriore aspetto da considerare: l’ESG può rappresentare una leva per disincentivare la delocalizzazione di comodo, promuovendo una responsabilità d’impresa più solida e radicata nel territorio.

Negli Stati Uniti, i dazi introdotti da Donald Trump sono stati il primo tentativo esplicito di riportare l’attenzione sulla produzione interna, dimenticata per troppo tempo in favore di un’economia basata sull’importazione e sul dominio valutario del dollaro. Quest’ultimo, usato come valuta coloniale, ha potuto mantenere la sua forza fintanto che gli equilibri geopolitici lo consentivano. Oggi, quella supremazia è in discussione. Per imporre una valuta, la storia insegna che è spesso necessaria la guerra. E se si volesse continuare a sostenere il dollaro, bisognerebbe in teoria dichiarare guerra ai BRICS e alla crescente influenza del Renminbi.

Non essendo riusciti a imporre agli alleati NATO l’acquisto sistematico di armamenti, la reazione statunitense è stata duplice: ridurre l’impegno in alcune aree di conflitto e tentare di recuperare competitività economica rafforzando la produzione interna. È in questo contesto che va letta la politica dei dazi: una misura di recupero, ma anche una presa d’atto del fallimento di un certo modello globale. L’attacco a uno dei BRICS, infatti, non ha prodotto i risultati sperati.

Oggi assistiamo a una ritirata tattica: testa bassa e pedalare. Non è autarchia, è un cambio di strategia obbligato da una sconfitta pesante. E se Joe Biden non poteva permetterselo politicamente, Trump ha avuto invece margine per farlo. In fondo, la politica estera degli Stati Uniti non cambia radicalmente da un’amministrazione all’altra: cambia solo il linguaggio, non l’indirizzo.

Questa guerra — che potremmo definire militar-valutaria — avrà un conto da pagare. E qualcuno dovrà farlo. Se non si comprano armi, non si riceveranno più protezioni militari; in compenso, per recuperare, si verrà colpiti con barriere doganali. È in questa logica che si inserisce anche la posizione dell’Unione Europea, e in particolare quella della presidente Ursula von der Leyen. Una posizione che appare schizofrenica: da un lato sostiene la guerra contro un membro dei BRICS, favorendo così il rafforzamento del dollaro; dall’altro, non rafforza realmente la NATO, preferendo riorganizzare la difesa in chiave autonoma e semi-autarchica con la richiesta degli 800 mld di euro per il riarmo.

L’obiettivo? Mantenere l’Europa divisa dalla Russia, che gioca a favore della politica degli USA e non dell’UE. Ma la realtà è un’altra: la guerra è stata persa. E, forse, non avrebbe mai dovuto essere iniziata. Anche la Brexit, riletta oggi, acquisisce un nuovo senso: una fuga preventiva da un sistema che sta mostrando tutte le sue contraddizioni.

La proprietà popolare della moneta rappresenta non solo la realizzazione del diritto sociale, ma anche la base più solida per costruire una pace duratura nel mondo.

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La Redazione de La Voce del Patriota

1 commento

  1. E’ curioso, l’articolo in poche parole spiega come gli USA abbiano scatenato la guerra contro “uno dei Paesi dei BRICS” per difendere il dollaro o giù di lì.
    Opinione rispettabile, come tante, ma piuttosto fantasiosa. E’ opinione comune anche quella che la Russia abbia aggredito un paese vicino – l’Ucraina – per mantenere il regime dittatoriale costruito da Putin e compattare il consenso interno a fronte del declino economico e politico del Paese.
    Sono punti di vista.
    Da tali premesse poi “si va in discesa”.
    Il Sig. Trump vorrebbe abbandonare la difesa del dollaro, che peraltro negli ultimi decenni ha continuato a svalutarsi, anche senza dazi; l’Europa (lasciamo perdere l’UE: parliamo di Francia, GB, Germania, Italia) vuole riarmarsi invece che difendere la NATO (ma non è quello che ha chiesto Trump?), la guerra è stata persa (da chi?), e così via.
    E i dazi? favorirebbero la ripresa della produzione interna, ma ci si dimentica di chiedersi a quale prezzo.
    Il Italia nel periodo del protezionismo generale (dopo la crisi del ’29 e fino al dopoguerra) si faceva margarina invece che burro, il caffè d’orzo e così via, con l’autarchia. Non ne è uscito molto di buono, se non il declino economico e industriale.
    Una cosa in ogni modo rispetto: su queste pagine, sulla base di valori comuni, si rispecchiano anche punti di vista diversi.
    In fondo è un bene.

    con affetto

    Alessandro

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