In Italia, il dibattito sulla transizione ecologica oscilla tra slogan salvifici e allarmismi ideologici. Da un lato c’è chi vorrebbe “decarbonizzare tutto” senza curarsi delle conseguenze economiche e sociali. Dall’altro, chi denuncia ogni cambiamento come un complotto climatico. Ma al di là delle polarizzazioni, esiste una verità geopolitica che in pochi hanno il coraggio di affrontare: il Green Deal europeo, così come imposto da Bruxelles, rischia di trasformarsi in una trappola strategica che ci consegna mani e piedi alla Cina.
L’Unione Europea ha avviato la corsa alla neutralità climatica con obiettivi ambiziosi — forse troppo. Stop ai motori termici dal 2035, obblighi di ristrutturazione energetica per gli edifici, tasse crescenti sulle filiere produttive tradizionali. Una serie di misure imposte senza tener conto delle differenze tra le economie degli Stati membri e, soprattutto, senza costruire un’industria europea capace di reggere la sfida.
Il risultato? Le nostre imprese e famiglie ne pagano il prezzo. Ma il guaio più grande è che l’intero impianto della transizione “verde” si basa su tecnologie e materie prime in gran parte controllate dalla Cina. Pechino domina oltre l’80% della produzione mondiale di pannelli solari, batterie, terre rare e componenti elettronici fondamentali. Il paradosso è servito: ci siamo liberati dal gas russo per finire nella dipendenza industriale cinese.
Fino al 2022, l’Italia ha spesso accettato in modo passivo le direttive europee in materia ambientale. Ma oggi, finalmente, qualcosa è cambiato. Il governo guidato da Giorgia Meloni ha scelto di difendere l’interesse nazionale, costruendo un’alternativa basata su realismo geopolitico e sovranità energetica.
Primo segnale concreto: la riapertura del dibattito sul nucleare. Il governo ha inserito il ritorno dell’energia atomica di nuova generazione tra le priorità strategiche italiane. Non si tratta di nostalgie, ma di guardare al futuro: i reattori modulari (SMR), già adottati da Francia, Stati Uniti e Canada, offrono una soluzione sicura, flessibile e compatibile con la nostra rete. È un passo decisivo per garantire stabilità energetica, costi contenuti e indipendenza dalle forniture straniere.
Secondo pilastro della nuova visione italiana è il Piano Mattei per l’Africa. Annunciato da Meloni come il cuore della politica estera italiana, è molto più di un progetto di cooperazione: è la base per una strategia mediterranea che valorizza l’Italia come ponte energetico e diplomatico tra Europa e Africa. Significa più gas e rinnovabili da Paesi amici, meno dipendenza da regimi autoritari. Una visione che mette insieme crescita, sicurezza e prestigio internazionale.
“Il Piano Mattei rappresenta una grande opportunità per l’Italia, per l’Europa e per l’Africa. Un progetto ambizioso, ma necessario, che vede il nostro Paese protagonista nel costruire un nuovo equilibrio multilaterale”, ha dichiarato la premier Meloni.
Certo, le sfide non mancano. Serve accelerare sullo sviluppo di filiere italiane delle rinnovabili, investire seriamente nella ricerca e nell’innovazione, e soprattutto pretendere in sede europea che le scelte ambientali siano accompagnate da criteri di sicurezza industriale e strategica, come già fanno Francia e Germania.
Ma una cosa è chiara: l’Italia ha smesso di accettare direttive a occhi chiusi. Sta tornando a pensare come una Nazione. Il Piano Mattei, il rilancio del nucleare e la postura più assertiva in Europa sono segnali forti. A Bruxelles, questa nuova consapevolezza italiana disturba. Ma fuori dalla retorica, l’autonomia strategica non è un vezzo, è una necessità storica.
La transizione ecologica non può essere l’ennesima occasione persa o il cavallo di Troia per nuove dipendenze. Deve diventare un’opportunità per rilanciare l’Italia come potenza industriale, tecnologica e geopolitica. E per farlo, serve una visione nazionale. Oggi, questa visione inizia ad esserci.