Ridare certezza dei tempi del processo è un obbligo che ci impone lo Stato di diritto. Con la legge Bonafede si era dato il via a uno sviluppo contrario della giustizia, contrario soprattutto al dogma iniziale: secondo la riforma voluta nel 2019 da Alfonso Bonafede, ex ministro della Giustizia dell’illuminato governo Conte, dopo la sentenza di primo grado, che fosse essa di assoluzione o di condanna, il decorso della prescrizione veniva definitivamente sospeso. Il rischio, come già spiegato, era quello di avere processi potenzialmente senza fine per cui un imputato dichiarato innocente, finché non si arrivava in Cassazione, poteva continuamente vedere messa in discussione la sua innocenza. Si prospettava – nelle parole lasciate ai social dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro – “un universo concentrazionario di indagati e imputati a vita”. È proprio per superare “l’infausta parentesi bonafediana” che il Parlamento ha deciso di dare il via al processo di riforma della prescrizione. L’iter di approvazione ha già raggiunto la Camera, dove la nuova norma ha ottenuto la maggioranza dei voti con 173 sì e 79 no: essa prevede la sospensione della prescrizione di due anni dopo la sentenza di condanna di primo grado e di un anno dopo la conferma della condanna in Appello. Tuttavia, se la sentenza di impugnazione tarderà non rientrando nei tempi previsti, ripartirà il decorso della prescrizione calcolandosi anche il precedente periodo di sospensione. “Finalmente – ha detto Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera – si seppellisce una volta per tutte la ricetta ‘bonafediana’, sostenuta da M5s-Pd, volta ad alterare in modo inopinato le regole del giusto processo, così alterando il rapporto tra la giustizia e il cittadino, relegando quest’ultimo a suddito”. Si rincorrono così certezza del diritto e tempi ragionevoli del processo.
Man mano qualcosa si sta muovendo perché, oltre la riforma che consentirà un loro snellimento, arrivano i dati confortanti sulla durata dei processi: si è registrato, dal 2019, una diminuzione del 19,2% nel settore civile e del 29% in quello penale. Ma, nonostante ciò, arrivano critiche dalle opposizioni, in particolare dal Movimento Cinque Stelle. Conte parla di “pacchetto di impunità per potenti, corrotti ed evasori”. Ma è con Cafiero De Raho, ex presidente della Procura nazionale Antimafia, che si è superato il limite: il suo sillogismo in merito ai limiti imposti ai quotidiani riguardo la pubblicazione di verbali e ordinanze (altra norma, tra l’altro, in favore del garantismo e, in particolare, della presunzione di innocenza dell’imputato) è un’accusa shock verso la maggioranza: “Non consentire la pubblicazione di contenuti determina il silenzio. Il silenzio è omertà e l’omertà è uno dei pilastri dell’associazione mafiosa”. Non sazio rincara la dose: “La vostra politica è un favore alle mafie. Zittite la stampa e le persone. Mai le mafie hanno avuto un trattamento così di favore”. Le ingiuriose parole di De Raho hanno provocato lo sdegno dell’uditorio e le reazioni della maggioranza, che con poche parole ha smontato la gravissima accusa del grillino: “Nessuna morale da chi – ha risposto il senatore di Fratelli d’Italia Salvatore Sallemi – nei precedenti esecutivi, ha liberato i boss”.
Coraggio Nordio, coraggio Governo.
Non è possibile avere una casta di intoccabili – i magistrati – che pretendono di non aver alcuna responsabilità in quello che fanno.
Sacrosanti i limiti dati dalla prescrizione. Ma aggiungerei che il magistrato inquirente che supera tali limiti non portando a termine in tempo il procedimento ne sia responsabile e paghi in termini di carriera e di “posto di lavoro” (è vero: i magistrati si considerano lavoratori dipendenti come qualunque impiegato!).
Che ognuno abbia il suo.
Con affetto
Alessandro