Crollano le torri d’avorio. Nella primavera del 2025, mentre il mondo osserva con attenzione crescente la fragilità delle sue vecchie architetture di potere, anche il World Economic Forum, simbolo delle élite transnazionali, si ritrova a fare i conti con la sua ombra. Klaus Schwab, l’uomo che ha inventato Davos come tempio della globalizzazione, è ora al centro di un’inchiesta interna voluta dal board del WEF dopo una lettera anonima esplosiva. Lo rende pubblico il Wall Street Journal.
Il documento, firmato da attuali ed ex dipendenti, parla chiaro: anni di abusi di potere, intreccio tra interessi privati e risorse dell’organizzazione, favoritismi e una cultura interna basata sul silenzio e la reverenza. Il risultato è una tempesta perfetta. E per una volta, l’aria rarefatta dell’alta finanza incontra l’odore acre dello scandalo.
Le accuse: lusso, denaro e impunità
Le immagini sono forti: giovani dipendenti costretti a prelevare contanti per conto di Schwab, soggiorni in hotel di lusso con massaggi pagati coi fondi del Forum, viaggi di piacere travestiti da missioni istituzionali organizzati dalla moglie Hilde, ex dipendente del WEF, e la famigerata Villa Mundi: una residenza da sogno sul Lago di Ginevra, acquistata e ristrutturata con fondi del Forum per oltre 50 milioni di dollari, divenuta – secondo le accuse – un feudo personale della famiglia Schwab.
Non avrà più nulla, ma non è felice
Klaus Schwab ha rassegnato le dimissioni con effetto immediato, rinunciando al ruolo di presidente onorario e anche al proprio vitalizio da cinque milioni di franchi svizzeri. Non per senso di colpa, dice, ma per “buona fede”. Intanto, minaccia querele contro chiunque osi mettere in dubbio la sua integrità. Ma il clima attorno a lui è cambiato.
Il board, una costellazione di potenti da ogni angolo del mondo – da Al Gore a Julie Sweet – non ha fatto scudo. Anzi, lo ha lasciato solo. Un dettaglio che segna plasticamente il tramonto dell’era Schwab.
La caduta delle èlite
Quella che fino a pochi anni fa era una narrazione intoccabile – progresso, interconnessione, “stakeholder capitalism” – oggi mostra crepe profonde. Davos, un tempo sineddoche del potere fluido e progressista, diventa ora il simbolo dell’autoreferenzialità che ha tradito le promesse del mondo globalizzato.
Non è solo un’indagine interna: è la rottura del patto tacito tra chi governa senza mandato popolare e una pubblica opinione sempre più consapevole, e indignata. Il crollo di Schwab, in questo senso, è un segnale geopolitico: l’epoca dei tecnocrati demiurghi scricchiola sotto il peso delle sue stesse contraddizioni.
Nel gennaio 2025, l’ultima edizione del Forum aveva già mostrato un volto meno sicuro, meno celebrativo. I leader mondiali iniziavano a disertare, i media ad alzare il sopracciglio, i giovani attivisti a gridare con più forza. Ora, con Schwab costretto al passo indietro, il WEF dovrà reinventarsi o dissolversi.
Ma il problema va oltre un uomo, o un’indagine. Riguarda l’idea stessa che una ristretta élite possa governare il mondo, le sue priorità, le sue transizioni – ambientali, tecnologiche, culturali – al riparo dal dibattito democratico.
In fondo, ciò che accade oggi a Davos non è che il riflesso di ciò che accade nel mondo reale. Un mondo che si risveglia. Dove i cittadini, dopo anni di crisi, imposizioni e narrazioni prefabbricate, iniziano a domandare conto. Dove la sovranità, la trasparenza e il buon senso ritornano ad essere richieste, e non nostalgie.
Il sipario è calato. Klaus Schwab ha lasciato la scena. Ma la vera domanda resta: quanto ancora reggerà il palcoscenico su cui si è mossa l’élite globalista degli ultimi trent’anni?