Di Diego Tagliabue
È ufficiale: Trump ha mantenuto una delle sue promesse, che per quasi tutti i partner commerciali degli USA suonava come una minaccia.
In questi pochi giorni è stato detto e scritto di tutto, sia da politici che da giornalisti. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle reazioni di “quelli che contano” ha il contenuto e il livello del proverbiale bar dello sport.
Nella fattispecie hanno gridato, sbraitato il loro strali sia i fans della UE verde gretina, la quale dovrebbe subito sparare il bazooka dei controdazi, sia il fanclub del “Trump amico di Putin e dei BRICS”.
Inutile spiegare a chi non vuol ascoltare, che Trump ha imposto proprio su Cina, India ecc. dazi ben più pesanti di quelli al 20% contro la UE.
Inutile spiegare a chi non vuol ascoltare, che controdazi europei contro le big tech americane sarebbero un autogol. Il sistema operativo europeo (il Windows europeo), lo smartphone europeo (eccetto le briciole di Nokia), il social network europeo e la produzione di chips europea non esistono.
Entrambi i fanclubs (che in realtà sono due sette pseudoreligiose) non hanno capito una cosa molto semplice: il motto di Trump è Make America great again e non Make something else great again.
In altri termini, la congruenza di alcuni valori/principi/idee tra un leader politico di un Paese europeo e Trump non significa automaticamente che gli interessi geopolitici del suo Paese collimino con quelli degli Stati Uniti d’America.
Lo stesso si può dire sulla Russia e sulla Cina, con buona pace di chi vede nell’una o nell’altra un’alternativa alla matrigna UE di UvdL.
Abbiamo a che fare con tre superpotenze – USA, China e Russia – e tutte e tre sono imperialiste. Ovviamente, il fanclub di Putin sostiene che esisterebbe solamente l’imperialismo statunitense, ma la realtà è un’altra.
Purtroppo (e questa è la cosa più grave) l’unica istituzione sovrannazionale, che dovrebbe rappresentare e sostenere gli interessi congiunti – sì, anche e soprattutto quelli economici – di tutti i Paesi membri, sta facendo da anni l’esatto contrario, in nome del neomarxismo tinto di verde.
La crisi dell’industria automobilistica europea, ma anche quella del settore della chimica, è solo da ricondursi al Green Deal e alla burocrazia elefantiaca dell’Unione Europea.
L’America innova, la Cina copia (e perfeziona), l’Europa detta regole e proprio queste regole basate su un’ideologia autolesionista e malata rendono noi tutti sempre più deboli nei confronti delle superpotenze, ma anche nei confronti di potenze regionali come l’India.
Torniamo a Trump. Chi ha seguito la campagna elettorale, avrà sentito più volte Trump dichiarare due pilastri del suo nuovo corso:
- Petrolio e gas americani per l’industria americana. Drill baby, drill! Si chiama autarchia.
- Riportare la produzione dalla Cina e dall’Europa in America. Si chiama protezionismo, per rafforzare la old economy, l’economia reale e produttiva, non borsistica e speculativa.
Pur avendo imposto dazi in blocco verso quasi tutti i Paesi di questo mondo, sono due i settori che Trump vuole rafforzare e rendere di nuovo americani:
- il digitale
- l’industria automobilistica.
Avviso! Citerò di seguito alcuni nomi di aziende e di prodotti. Questa non è pubblicità, ma solo un modo per illustrare meglio la situazione e la posta in gioco.
Cominciamo con il settore digitale. Paradossalmente proprio nella new economy i giganti statunitensi del settore come Alphabet (Google, YouTube), Microsoft, Apple, Meta (Facebook, Instagram, Whatsapp), Amazon ecc. hanno di fatto una posizione di monopolio.
Andate a guardare quale sistema operativo gira su quasi tutti i computer, notebooks ecc. in tutta Italia! Senza Windows non funziona più niente e Linux non è un sostituto valido: manca la compatibilità con quasi tutti i software in commercio e anche le “grandi” versioni commerciali di Linux – per esempio Red Hat – sono made in USA.
Con Android, Google ha una fetta di mercato mondiale su smartphones e tablets pari al 73,5% (dati del 5.03.2025), si posiziona in Europa al 65,5%, mentre negli Stati Uniti Apple è ancora in vantaggio su Android con una quota del 57,7%.
I social di peso sono Facebook, X, Instagram, YouTube e TikTok. Eccetto l’ultima (cinese), sono tutte americane.
Se consideriamo, però, l’hardware, allora vediamo la strapotenza invasiva di dispositivi e componenti di produzione cinese o sudcoreana, ma anche taiwanese e giapponese.
IBM, HP, Apple e DELL non sono più (da tempo) gli unici offerenti sul mercato americano e mondiale. Nomi come ASUS e ACER (Taiwan), Lenovo e Xiaomi (Cina), Sony, Toshiba e Fujitsu (Japan) sono onnipresenti.
Nell settore specifico degli smartphones con sistema operativo Android, Samsung (Corea del Sud) e Huawei (Cina) la fanno da padrona.
Dulcis in fundo, la produzione di chips e di componenti elettronici – sia per computer e smartphones che per le auto – è feudo incontrastato della Cina.
Gli Stati Uniti hanno le capacità, in termini di know how e di manpower, per riportare a casa la produzione.
Ovviamente, i prezzi al consumo aumenteranno: il lavoro negli USA ha un costo più alto di quello in Cina o nel Sudest asiatico. Se aumenteranno anche i salari, senza innescare la spirale salario-prezzo, allora il piano di Trump funzionerà.
Passiamo al settore automobilistico.
Qui le case automobilistiche statunitensi, prima di inveire sulla “concorrenza sleale di Europa e Giappone” e pretendere da Trump ancora più protezionismo, dovrebbero assumersi le responsabilità del loro proprio disastro.
Se escludiamo la Ford, tutti costruttori statunitensi trascurano il segmento delle utilitarie e della classe media (Panda, Golf, Clio, Fabia e simili) da decenni.
La maggioranza dei cittadini americani non può permettersi una muscle car (Corvette, Camaro, Mustang, Dodge Charger) o un american truck e la rete dei trasporti pubblici negli USA (sì, anche nelle metropoli) non è così sviluppata come in Europa, Cina e Giappone. Quindi, anche solo per potersi recare al lavoro, il cittadino americano medio ripiega su vetture di produzione europea o giapponese.
Questa tendenza c’è dagli anni ’70, non da ieri.
Ho citato qui sopra la Ford. Da un lato, ha provato a offrire un’alternativa americana nelle fasce di prezzo più economiche, dall’altro ha prodotto vetture di scarsa qualità o persino con difetti di costruzioni pericolosi. La famigerata Ford Pinto (1970 – 1980) non è un caso isolato.
Oltretutto, per contenere i prezzi, anche la Ford aveva ripiegato già all’epoca su fornitori europei, producendo quindi vetture non completamente made in USA.
Un’altra caratteristica negativa delle produzioni statunitensi (non solo nel settore automobilistico) è quella di preferire l’assistenza alla qualità, qualora ciò sia più remunerativo.
Facciamo un esempio: io acquisto un frigorifero di produzione americana, la cui maniglia, dopo circa sei mesi, comincia ad allentarsi e mi rimane in mano.
Chiamo l’assistenza clienti. L’operatore del call center è gentilissimo, non fa problemi, neanche mi interrompe mentre parlo e mi spedisce subito una maniglia nuova.
Questa, però, ha la stessa scarsa qualità della maniglia, che mi è rimasta in mano. Quindi, nel giro di altri sei o otto mesi, avrò lo stesso problema.
Siccome i costi per l’assistenza clienti per questa ditta sono inferiori a quelli di un miglioramento qualitativo del prodotto, la qualità rimarrà invariata.
Provate a pensare a una situazione simile, ma stavolta è la vostra auto, non il frigorifero!
Trump può arginare l’osmosi delle utilitarie e delle vetture di classe media europee e giapponesi, ma, senza prodotti sostitutivi validi realizzati in patria, i consumatori americani continueranno ad acquistare vetture straniere, anche se a prezzi artificiosamente gonfiati.
Ora dobbiamo trarre un paio di conclusioni.
Trump vuole riportare la produzione da Cina ed Europa in America.
Il piano può riuscire, ma causerà contraccolpi all’economia mondiale. A Trump questo non interessa: è il suo whatever it takes.
Gli unici ostacoli sono anch’essi di matrice americana. Vedi quanto illustrato sopra.
Staremo a vedere, se l’amministrazione Trump sarà in grado di rimuoverli.
È ancora incerto, se la nuova amministrazione americana avrà interesse a offrire un canale preferenziale a singoli Paesi europei, come sta facendo per esempio con il Messico e con l’Argentina.
Lo vedremo al più tardi dopo la visita del vicepresidente J. D. Vance in Italia e il colloquio bilaterale con la premier Giorgia Meloni.
Supponiamo che venga stipulato quel tipo di accordo. Qui si apre una serie di questioni strategiche:
- Quanto varrà quel patto in termini prettamente economici?
- Quali saranno le condizioni?
- Sarà qualcosa come “Voi firmate per Starlink e noi vi abbassiamo i dazi al 5%”?
- Saranno condizioni sufficienti a salvare l’export italiano verso gli Stati Uniti?
- Varrà la pena accettare una “corsia preferenziale” con gli USA e scatenare una diatriba (detto in modo esageratamente eufemistico) con Bruxelles e/o con alcuni Paesi membri della UE, nei quali l’Italia esporta tantissimo?
- Di contro, vale la pena tagliare i ponti con gli Stati Uniti, per legarsi ancora di più alla UE e accettare condizioni fortemente ideologizzate e di carattere (quasi) distopico?
Ammettiamo pure che si arrivi a quell’accordo con gli USA e che le condizioni siano così favorevoli per l’Italia, da indurla a litigare con la UE. A questo punto è chiaro che gli USA considerano la UE (giustamente) come non esistente e preferiscono interloquire con le singole nazioni.
Ripicche in forma di dazi europei contro Harley Davidson, Gibson, Fender, Jack e Daniels scontenteranno un certo gruppo di motociclisti, musicisti (professionisti o meno) e buongustai di whiskey, ma non danneggeranno più di tanto l’economia statunitense.
Imporre dazi europei di ritorsione contro le big tech americane causerà solamente un aumento significativo dei prezzi di licenze software per gli utenti europei, privati, commerciali e pubblici.
L’Europa non produce quasi niente in quel settore, è totalmente dipendente da Stati Uniti, Cina ecc.
L’unica reazione ragionevole europea è quella di rivedere (meglio abrogare) il Green Deal e di tosare la burocrazia (peraltro ideologizzata) della UE, ovvero gli unici due ostacoli alla competitività europea.
Proprio questo ha sottolineato nuovamente la premier Meloni nel corso del suo intervento al congresso della Lega.
La base di tutta l’economia, soprattutto di quella vera, produttiva, è l’energia affidabile. Vista la mancanza di fonti fossili sufficienti in Europa, il nucleare è imprescindibile.
In materia di energia, il modello tedesco basato solo sulle rinnovabili, è già oggi un fallimento.
Dopo lo spegnimento dell’ultimo reattore Isar2, la Germania è diventata un importatore netto di corrente, principalmente da Francia e Repubblica Ceca, che hanno e vogliono ampliare il nucleare.
L’eccessiva regolamentazione (peraltro basata su dogmi ideologici) è il sacello dell’innovazione e del progresso tecnologico, con buona pace di chi si autodefinisce “progressista”.
Parallelamente l’Europa deve riportare a casa – sulla falsariga degli USA – la produzione in tutti i settori possibili, cominciando con la sovranità alimentare, che è ben accetta in Italia, ma osteggiata da chi crede agli insetti da mangiare, “per salvare il clima”.
La dipendenza europea (non solo americana) dalla Cina è dovuta solo e unicamente alla dabbenaggine dell’Occidente, che dagli anni ’90 ha trasferito sistematicamente la produzione sul banco di lavoro cinese, incluse tecnologie chiave e dual use.
La smania di avere sempre di più e a prezzo sempre più stracciato, ci aveva reso già allora ciechi di fronte a chi aveva dato l’ordine del massacro di piazza Tienanmen. Sì, abbiamo cominciato a dissanguarci proprio con Deng Xiaoping e oggi siamo alla mercé di Xi Jinping.
Ovviamente, non è possibile eleminare una dipendenza pluridecennale in un paio di mesi o anni. Occorre farlo gradatamente, ma inesorabilmente e la parola d’ordine si chiama diversificazione, ovvero accordi con altri Paesi (con potenze regionali), per ottenere filiere più corte e affidabili.
Grazie soprattutto a Giorgia Meloni, nel settembre 2023 l’Italia aveva portato l’India a firmare con i “big” europei l’accordo di IMEC, alternativa alla Via della Seta cinese.
Il corridoio IMEC passerebbe, però, secondo i piani, per la Giordania e Israele.
Ebbene, Hamas è una marionetta dell’Iran, che a sua volta è un vassallo della Cina. Non ci vuole tanta immaginazione, per capire, che quell’attentato del 7 ottobre 2023 non è stato solamente una nuova intifada.
Nel suo intervento all’inaugurazione del terminale MSC a Miami, Giorgia Meloni ha rilanciato IMEC. È un’opportunità senza precedenti per l’Italia.
Se la UE (il triangolo Parigi-Berlino-Bruxelles) farà orecchie da mercante come nel caso del Piano Mattei, allora che l’Italia lo realizzi bilateralmente con l’India e con altri Paesi interessati!
Siamo arrivati alla domanda finale: cosa fare, se l’Europa istituzionale non reagirà o lo farà in modo ideologizzato, dogmatico, sconsiderato?
Per quanto possa sembrare duro, ogni Paese deve mettere al primo posto i propri interessi nazionali e agire in modo indipendente.
Mettere l’Italia con l’Italia.