L’America è tornata. Non è uno slogan: è un dato di fatto. E chiunque abbia atteso le 3 di notte per ascoltare il discorso di Donald Trump davanti al Congresso – il primo da 47° Presidente degli Stati Uniti – lo sa bene. Quella che abbiamo visto è stata una dichiarazione di guerra all’establishment, una road map per il futuro e, soprattutto, un messaggio chiarissimo: l’epoca del lassismo ideologico è finita, il tempo dell’azione è adesso.
Trump ha parlato con la consapevolezza di chi sa di avere un mandato storico. Non una semplice vittoria elettorale, ma un’investitura popolare per rovesciare un sistema che per troppo tempo ha strangolato l’America con burocrazia, tasse e ideologia woke. Il suo ritorno alla Casa Bianca non è stato solo un evento politico, ma il simbolo di una riscossa nazionale che i media e l’élite progressista non riescono ancora a digerire.
La narrazione che i democratici e media mainstream hanno cercato di imporre negli ultimi anni si sta sgretolando sotto il peso della realtà. Ogni giorno, uno psicodramma diverso, fatto di dichiarazioni e titoli di giornale che ne certificano la malafede e, di conseguenza, la totale inadeguatezza ad informare o addirittura a prendere decisioni cruciali per la collettività.
Quello che abbiamo visto al Congresso è stato molto più di un classico State of the Union. Trump sta guidando una rivolta contro il globalismo progressista che ha provato a smantellare le nazioni, e l’America di Biden ne è stata il simbolo più grottesco: confini aperti, agenda woke, ambientalismo che strangola l’economia. Quella stagione è finita, e ora l’Occidente ha un leader vero, che sull’immigrazione ha detto che «non serviva una legge, serviva un Presidente».
«Democratici seduti davanti a me, per una sola notte, perché non vi unite a noi nel celebrare incredibili vittorie per l’America?» ha chiesto, guardando una sala divisa in due: da una parte i repubblicani esultanti, dall’altra i democratici immobili. E poi ha affondato il colpo: «Potrei scoprire la cura per la malattia più devastante del mondo, potrei annunciare l’economia più forte della storia, potrei ridurre il crimine ai livelli più bassi mai registrati, e queste persone sedute qui non si alzerebbero, non applaudirebbero e non sorriderebbero. Nulla li renderebbe felici».
Ed è proprio qui che emerge la vera natura della sinistra, in America come alle nostre latitudini. Un’opposizione che non solo odia visceralmente Trump, ma che odiando lui arriva a odiare l’America stessa. Gente che non si riconosce nella propria bandiera, che non ha alcun interesse per la difesa dell’identità nazionale e che preferisce agitare vessilli LGBT, bandiere di Black Lives Matter, dell’Europa, dell’Ucraina, della Palestina. Tutto, tranne la bandiera della propria Nazione.
Perché, esattamente come accade in Italia, la sinistra ha sposato una visione antinazionale: disprezza il proprio Paese, chi lo difende e chi ne incarna i valori, a partire dal Presidente. Ecco perché si rifiutano di applaudire Trump, anche quando elenca risultati che oggettivamente rendono l’America più sicura, più forte e più prospera. Non possono farlo, perché significherebbe accettare il funzionamento di un’America che crede in se stessa, che non si piega ai diktat globalisti, che chiude i confini e protegge la sua industria.
Inaccettabile per chi vive nel culto dell’internazionalismo senza patria, del cosmopolitismo elitario che antepone ogni altra causa all’interesse nazionale. Trump ha parlato al Congresso, ma il suo discorso era rivolto a un pubblico ben più vasto. Ha parlato all’America profonda, certo, ma anche ai leader conservatori di tutto il mondo. Perché ciò che sta accadendo negli Stati Uniti non è una semplice alternanza di potere: è uno scontro tra due visioni del mondo. Da una parte, il globalismo progressista che punta a smantellare le identità, a sottomettere le nazioni a un’élite burocratica transnazionale.
Dall’altra, la rivolta sovranista che difende confini, valori e libertà individuale. L’America di Biden è stata il laboratorio della peggiore sinistra internazionale. Quella che apre i confini, impone l’agenda woke, distrugge la produzione industriale in nome di un ambientalismo ideologico e criminalizza chiunque osi dissentire. Ma questa America è durata quattro anni, non di più. Ora l’Occidente ha un nuovo leader. E Trump non ha intenzione di fare sconti.
Il suo messaggio all’Europa è chiaro: «Non pagheremo più per la sicurezza di chi non vuole difendersi». E sulla guerra in Ucraina ha lanciato un segnale inequivocabile: «È ora di fermare questa follia. È ora di fermare le uccisioni. È ora di porre fine a questa guerra insensata». E poi ha rivelato un dettaglio che i media progressisti si sono affrettati a minimizzare: «Poche ore fa ho ricevuto una lettera dal presidente Zelensky. Mi ha scritto: ‘L’Ucraina è pronta a sedersi al tavolo delle trattative il prima possibile per avvicinare una pace duratura’».
Ciò che Trump ha delineato è un progetto politico senza precedenti. Il suo secondo mandato non sarà solo il prosieguo del primo, sarà il completamento di un’opera rimasta incompiuta. Drain the swamp, ripulire il marcio della burocrazia federale, smantellare il deep state, restituire il potere al popolo. Non è uno slogan, è un obiettivo dichiarato. E per farlo, Trump sa bene che dovrà affrontare la più dura delle resistenze. I media, i lobbisti, le agenzie governative che hanno lavorato per sabotarlo nel 2020 torneranno all’attacco. La macchina del fango è già in moto, e la sinistra è disposta a tutto per ostacolare il suo programma. Ma Trump ha un vantaggio che nessuno può togliergli: il popolo.
In questo scenario l’Europa non può permettersi di restare a guardare, immobile e subalterna, mentre l’America riscrive il proprio destino. Questa è l’occasione per spezzare le catene del globalismo e tornare a essere padroni del nostro futuro. Il vento del cambiamento soffia forte da Washington e l’Europa ha una sola possibilità: cogliere questa opportunità e risvegliarsi da decenni di declino. Per farlo, ha bisogno di una guida forte, capace di spezzare il giogo dell’élite progressista. Quella guida esiste, e si chiama Giorgia Meloni.