Il futuro dell’Africa è in Africa. Lo spiega Marco Valle.

Una buona lettura non può, e non deve, rinunciare ad alcuni ingredienti fondamentali: la retta informazione, la conoscenza profonda della materia in esame e, ma non ultima, una proposta, un consiglio, un orientamento di pensiero futuribile e realistico. L’equilibrio dinamico tra queste differenti istanze garantisce la qualità complessiva dell’elaborato.

L’ultimo saggio di Marco Valle, intitolato Il futuro dell’Africa è in Africa. I tanti volti di un Continente sorprendente. Che l’Italia ha dimenticato (2021, Società Europea di Edizioni Spa – Il Giornale), affronta, con cognizione e responsabilità, un tema ampiamente dibattuto, estenuato da logiche preconcette e preconfezionate, sovente emozionali e scarsamente critiche: la condizione dell’Africa tra “illusioni, delusioni, ripartenze”.

Il breve e agile scritto, ma notevole per forma e contenuto, opera sin dai suoi primi passi una sorta di rivoluzione copernicana al tema, ribaltando la prospettiva, largamente diffusa, secondo cui “l’Africa [sarebbe] un solo immenso disastro, un continente stremato dai conflitti e dalle carestie, un “cuore di tenebra” che inghiotte ogni speranza” (p. 5). Una condizione terribile, attribuibile al “rapace imperialismo europeo” che ha avuto come esito naturale, quasi una sorta di nemesi ineluttabile, le migrazioni di massa verso il continente europeo.

Un’interpretazione che l’autore contesta apertamente, sottolineandone i tratti ideologici, la diffusa superficialità, la scarsa conoscenza degli eventi storici pregressi, l’inutilità e il pensiero cortissimo. Valle prende le distanze da ingenuità metodologiche e da perbenismi moralistici, avocando unicamente a sé, quale guida e consigliera, la solida e certosina ricostruzione delle cause, l’esperienza maturata in anni di indagine e studi, l’amore, autentico e disinteressato, per quelle genti, quei popoli, quelle terre dalle infinite e inesplorate potenzialità.

Il pregio più ragguardevole dello scritto in questione è quello di avere guardato all’Africa come a una realtà composita, diversificata, ricca di sfaccettature e peculiarità del tutto dissimili: “Ancora una volta le Afriche. Semplificando all’estremo vi è una parte ad oggi perduta, inghiottita dalla disperazione, e un’altra ottimista e in solida crescita economica. Due e più distinti paesaggi, con sfumature differenti e toni ingannevoli. Mai scontati. Piaccia o meno, le crisi, le guerre sono il parametro fondamentale di interpretazione delle relazioni intra-africane. Stabilità e prosperità passano inevitabilmente dalla capacità dei governi e delle istituzioni multilaterali di agire per limitare l’incidenza dei conflitti sugli equilibri politici, sociali, economici del continente. Ancora una volta la differenza è l’idea di Stato. Dove manca la coesione statuale, il senso della nazione, uno scheletro d’amministrazione pubblica, tutto si disintegra, tutto implode nel tribalismo e nella corruzione. Nella violenza più cieca ed ottusa. Dove, invece, il processo di nation building post coloniale è in parte o quasi riuscito le prospettive sono differenti e, ragionevolmente, positive. Le Afriche sono sempre sorprendenti e spesso, per sguardi eurocentrici, spiazzanti” (pp. 29-30).

Le Afriche sono chiamate a confrontarsi con sfide difficili e insidiose, quali la pandemia, le guerre, i disastri ambientali, la penetrazione russa e cinese, il grandeur transalpino, ma non sono già vinte in partenza, rassegnate a un futuro di stenti o miseria. Investimenti tecnologici, rilancio del commercio intra-africano, potenziamento e rinnovamento dei servizi di trasporto, politiche ambientaliste contrastanti la piaga della desertificazione, lotta all’analfabetismo: sono solo alcune delle direzioni intraprese da molti Paesi africani che, sorprendentemente, lascerebbero intravedere una sete di autonomia, una volontà di riscatto e di emancipazione, uno sforzo teso a “superare i limiti della dipendenza dall’esterno e [a] velocizzare l’integrazione economica” (p. 31).

Acuta, e amara, risulta, infine, la fotografia della situazione italiana, segnata da un’incapacità politica, ormai divenuta storica e strutturale, nel confronto con questo mondo magmatico e vitale, oscillando tra atteggiamenti assistenzialistici, spesso ammantati di retorica inconcludente, e miopie gravissime che hanno estromesso l’Italia dai tavoli decisionali internazionali. I nostri militari e le nostre eccellenze imprenditoriali, Eni su tutte, hanno tenuto in vita un legame strategico decisivo per il nostro Paese, cioè quello con il continente africano, che dovrà, tuttavia, mostrare presto segni di ripresa e di ammodernamento, onde non consegnarci inesorabilmente all’irrilevanza politica nello scenario delicatissimo del Mediterraneo: “Ancora una volta l’orizzonte è quello dell’interesse nazionale, unica e vera linea guida di una politica seria, alta. Una strada obbligata per tutti coloro  che non si rassegnano al ripiegamento, al declino, alla fuga dalla Storia. Al di là dell’emergenzialismo, degli interventi incoerenti, della filantropia pelosa, è tempo di guardare alle tante Afriche e agli africani con occhi e pensieri nuovi. Lasciando alle spalle schemi irenici e formule passatiste” (p. 63).

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Luca Bugada
Luca Bugada
Luca Bugada, dottore magistrale in filosofia e in scienze storiche, insegnante, collabora con diverse testate giornalistiche e scientifiche, promuovendo cultura e memoria del sapere. "Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare" (Lucio Anneo Seneca)