di Massimiliano Scorrano
Prologo
La produzione scientifica dominante è concorde nel sostenere che il merito creditizio degli Stati sia esclusivamente verificabile dal rapporto Debito/PIL. Sostenere semplicemente che un maggior indebitamento sia deleterio può essere vero ma non sufficiente, questo perché, genericamente, tutti siamo consapevoli che questo sistema prevede l’indebitamento per la crescita del PIL. Gli Stati, tutti, hanno necessità di investire gli impieghi acquisiti dalle fonti per realizzare i propri piani di spesa; tradotto, tutti gli Stati, nessuno escluso, hanno necessità di fare debito, tramite l’emissione di TDS, per ottenere i mezzi finanziari da impiegare affinché si dia seguito alle politiche fiscali intraprese. Dire semplicemente che solo un maggior debito pubblico sia causa, e non anche concausa, del rallentamento crea gli spread in quanto induce tutti a rivolgere l’attenzione sul debito e non sulla potenziale profittabilità ottenuta grazie a quell’indebitamento. Ma qual è il limite massimo dell’indebitamento?
Gli studi econometrici: limiti e virtù.
Di recente è circolata la notizia che la Commerzbank, banca posseduta al 15% proprio dallo Stato tedesco, abbia consigliato alla propria clientela di vendere i titoli del debito pubblico italiano, come riferito dall’agenzia di rating, Bloomberg (1). Le motivazioni sono da ricercare probabilmente nello scarso appeal verso i TDS nostrani, un po’ per mancanza di fiducia ed un po’ per motivi speculativi, forse nell’estremo ed ultimo tentativo di dare una spallata, la più definitiva possibile, alla nostra economia, cosa che va letta sotto un duplice aspetto, ossia, una come azione per porre una pietra tombale sul progetto europeo oramai naufragato e l’altra come azione tendente a svilire una consorella per accaparrarsi le fette di mercato e la possibilità di fare shopping di assets italiani. In entrambi i casi viene messo in mostra l’estrema povertà di contenuti tali da far desistere il perseguimento del oramai tramontato progetto europeo, progetto capace solo di creare concorrenza e tensione tra gli stati membri. Se, con uno sforzo, è possibile comprenderne la motivazione predatoria (la spallata e lo shopping) quello che non è comprensibile è la mancanza di fiducia verso un sistema, nel suo complesso, che ha sempre onorato gli impegni presi. Ma allora, da cosa scaturisce questa mancanza di fiducia?
La fiducia dei “mercati” è argomento noto perché l’alto debito pubblico funge da deterrente all’erogazione di nuovi prestiti e, dove dovessero essere accordati, a tassi di interesse più elevati. Ne sa qualcosa il BTP decennale che sconta uno spread elevato rispetto al Bund tedesco. Ma quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento? Molti si cimentano in questo esercizio tra cui il Dott. Carlo Cottarelli. Il sito Osservatorio Conti Pubblici Italiani ha pubblicato uno studio intitolato “Due anni tra i conti pubblici”, un viaggio dei conti pubblici che vanno dal 2017 al 2019 a cura di Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli con lo scopo di “divulgare le informazioni sulla nostra finanza pubblica al fine di fornire utili analisi non solo agli esperti del settore ma anche a un pubblico più vasto”. Tale volume è edito da Feltrinelli e finanziato dalla Allianz SE, gruppo assicurativo e finanziario con sede principale in Germania. E’ probabile che le sue osservazioni siano valse la nomina come Presidente del Consiglio incaricato di formare il governo all’indomani delle ultime elezioni avvenute nel 2018, quell’incarico dato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella un po’ a sorpresa. Tali osservazioni, riteniamo, siano state molto seguite in terra teutonica (2). Forse troppo? Nel primo capitolo, ad opera di Silvia Gatteschi, si prende in esame la “stretta fiscale del 2012” ad opera del Governo Monti, con il tentativo di dimostrare che, se tale stretta non fosse stata attuata, il rapporto Debito/PIL sarebbe passato dal 116,5% al 142% finanche 145% (alla data del 2018). E’ bene ricordare che il rapporto Debito/PIL è il rapporto che “lega” il debito della sola Pubblica Amministrazione, ossia uno stock della sola P.A., con il PIL di tutto il sistema Italia (famiglie, imprese, P.A. Ecc.), quindi il debito di un solo settore con il PIL di tutti i settori; il PIL è un flusso; in sostanza si mette a rapporto uno stock con un flusso. Per le simulazioni portate avanti dalla Dott.ssa Gatteschi, sono stati utilizzati i moltiplicatori fiscali utilizzati in sede di NADEF e dal MEF. Corre l’obbligo aprire una piccola parentesi per dare la definizione di moltiplicatore fiscale. Il moltiplicatore fiscale del modello determina la variazione del reddito indotta dalla variazione della spesa pubblica e della domanda autonoma. Consente di misurare l’efficacia della politica fiscale.
In cui Y= PIL c= Propensione marginale al consumo e A= Domanda aggregata
In linea generale l’utilizzo del moltiplicatore fiscale dovrebbe rendere un numero tale che, per esempio, all’aumentare di € 1,00 della spesa pubblica si dovrebbe assistere ad una variazione positiva del reddito. Nella formula vi sono molte variabili di non facile determinazione come la propensione marginale al consumo, la domanda aggregata, tutte variabili che possono far saltare le previsioni sia in un senso che nell’altro. Se il moltiplicatore rende un numero maggiore di 1 si dovrebbe assistere ad un aumento sostenuto del reddito tale da imprimere maggiori entrate fiscali. Non vi è un numero certo del moltiplicatore fiscale, la qualcosa rende aleatoria ogni previsione. Infatti fare i conti con un reddito disponibile, che è dato dal reddito detratte le imposte e le tasse, e la propensione marginale al consumo, che varia da persona a persona in funzione di tanti fattori, non è agevole muoversi. Se è vero che il compito degli economisti è muoversi tra le previsioni, è pur vero che effettuare previsioni con dati aleatori e contrastanti non è facile. Lo stesso F.M.I. ha ammesso la fallacia del moltiplicatore fiscale (3). Ne viene fuori che il moltiplicatore fiscale in condizioni di forte recessione, non elevata tassazione, base reddituale esistente, esatta stima della propensione marginale al consumo e non elevato debito, funzioni ma, se una o più di una di queste componenti non risponde alle previsioni, diviene fuorviante fino a far saltare le stime di crescita e le previsioni di incasso delle imposte e delle tasse, con tutto quello che ne consegue. Tornando alla pubblicazione dell’Osservatorio CPI, seppur le conclusioni addotte dalla Dott.ssa Gatteschi possono essere condivisibili, rimane ancora senza risposta la domanda: ma quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento?
Di seguito, a firma del dott. Carlo Cottarelli, viene affrontato il problema relativo alla seguente asserzione: “Abbiamo provato con l’austerità a far crescere il Pil e non è servito. Per crescere occorre quindi fare il suo contrario.” Anche in questa sede la conclusione porta ad affermare che un aumento del deficit, se pur nel breve periodo, avrebbe comportato un miglioramento del rapporto Debito/PIL mentre, nel lungo periodo, avremmo assistito ad un aumento ulteriore. La conclusione è che solo una riforma strutturale avrebbe migliorato la situazione, ma anche qui non troviamo nessuna risposta alla domanda: ma quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento?
Anche il dott. Carlo Valdes torna sul discorso affrontato in precedenza relativo alla stretta fiscale imposta dal governo Monti, che a suo dire, ha ereditato una stretta già in essere col precedente governo Berlusconi. Per il dott. Valdes, in tali condizioni, avremmo assistito a serie difficoltà di accesso ai mercati finanziari a tassi insostenibili e sfavorevoli, tanto è vero che il famigerato spread era arrivato a 575 punti base. Ora quello che non si comprende è il motivo di questo aumento dello spread nonostante il governo Berlusconi, come asserito dallo stesso Valdes, avesse intrapreso una parte di quella stretta fiscale completata poi da Monti. Per il Valdes “si sarebbe anche potuto richiedere l’intervento della BCE ma bisognava mandare un messaggio ai mercati”. Anche qui sembra che la cosa da scongiurare sia il debito pubblico ma ancora nessuno ha accennato al livello ottimale o sostenibile del debito pubblico; quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento?
Nel paragrafo successivo viene affrontato il problema della cosiddetta “monetizzazione del debito, ossia di quella possibilità, da parte di uno Stato di poter “stampare” moneta per soddisfare le esigenze di politica fiscale. Gli autori riportano le dichiarazioni rilasciate da Paul De Grauwe e Yuemei Ji nel 2013 sulla rivista “Journal of International Money and Finance”. <<“In a world where spreads are tightly linked to the underlying fundamentals such as the debt-to-GDP ratio and fiscal space, the only option the policy makers have in reducing the spreads is to improve the fundamentals”. Ossia, se i tassi sono alti perché il debito pubblico è alto, allora occorre migliorare i fundamentals cioè ridurre deficit e debito. Questa e “l’unica opzione”.>> Che vi sia una “letteratura” astrusa che vuole che lo Stato italiano possa “stampare” moneta in quanto “gli altri lo fanno” è effettivamente errato. Non a caso da dopo il bank panic del 1907, e quindi con le prime leggi in tal senso promulgate dal 1913 negli U.S.A., tutto questo non è concesso. Infatti con quelli leggi e da quella esperienza in poi, tutti gli stati a cascata hanno decretato la separazione della politica fiscale dalla politica monetaria, rendendo indipendenti tutte le Banche Centrali dai Governi. Lo è attualmente anche la B.C.E. proprio in considerazione dell’articolo 123 del T.F.U.E (4). Non è concesso finanziare gli Stati; quando la B.C.E. pone in atto azioni di allentamento monetario, il Q.E., lo fa per finanziare le banche dealers che sono autorizzate ad acquistare sul mercato primario i T.D.S. Del resto non poteva essere concesso neanche ante 2001 alla Banca d’Italia. Quello che avveniva prima del 1981 era solo una concessione di scoperto, un anticipo di cassa, ossia un anticipo sulle entrate fiscali future previste per un massimo del 15%(www.gazzettaufficiale.it). L’Italia in quegli anni si stava affacciando al mercato finanziario e doveva allinearsi agli altri stati, virando su una tipologia di T.D.S. che prevedesse un lungo periodo. La famosa lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi non decretava un “divorzio” bensì una comunicazione con la quale si prendeva atto che “non si faceva più” quello che era stato fatto fino a quel momento, visto che le norme non lo permettevano (5). Comunque è bene ricordare che quella pratica di anticipare scaricava gli effetti negativi del rischio di tasso proprio sul bilancio della Banca d’Italia. Tornando alla “monetizzazione del debito pubblico” resta una certezza; effettivamente monetizzare indiscriminatamente la spesa pubblica porta ad un aumento dell’inflazione i cui effetti ricadono negativamente sulle retribuzioni fisse, ma non solo.
Anche chi investe in attività finanziarie di lungo periodo (come i BTP, per esempio) non desidera che l’inflazione assorba il valore dell’investimento. Del resto anche il mandato della B.C.E. è uniforme a tale visione, ossia quello di mantenere stabili i prezzi; oltre quel mandato non può andare perché le è vietato. In tal senso potremmo essere autorizzati a pensare che la Banca Centrale Europea tenga particolarmente a cuore più la stabilizzazione dei mercati finanziari che la facilitazione dei mercati reali. Vista da questa prospettiva alla B.C.E. non è concesso utilizzare tutti gli strumenti di politica monetaria. Essa infatti può agire sulla leva dei tassi (in esaurimento visti i livelli bassi raggiunti) o anche sulle riserve obbligatorie (già ridotte al minimo con scarsi margini di movimento) e non potendo finanziarie gli Stati non le rimane che rivolgere i propri programmi di allentamento verso le imprese top area Euro. La visione non è del tutto errata, quella di finanziare le imprese, in quanto sono le imprese che producono ricchezza e grazie alla ricchezza prodotta, gli Stati attraverso il prelievo fiscale, possono realizzare le proprie politiche fiscali.
Ma resta sempre un problema non poter utilizzare, per mandato, tutte le armi disponibili, soprattutto nei momenti di necessità. E’ innegabile che, nel mondo variegato dell’Unione Europea, ci siano Stati che evidenzino la necessità di utilizzare tutte le armi disponibili ma incontrano l’opposizione di tutti quegli Stati che non ne hanno bisogno, e questo rimane il grande problema irrisolto di questa Unione Europea che, apparentemente, fa fatica a mettere tutti d’accordo ma che è propensa, anche in condizioni di estrema necessità, a non lasciarsi andare ad Allentamenti Quantitativi che possano raggiungere le famiglie e non solo le banche. Questo non vuol significare che politiche espansive non siano percorribili, anche perché, quando Keynes sosteneva l’intervento degli Stati a supporto dell’economia, non l’intendeva indiscriminatamente ma solo in casi di effettiva ed impellente necessità. Il paragrafo della “monetizzazione del debito” si conclude con un rimando alla pubblicazione dal titolo “The impact of high and growing government debt on economic growth. An empirical investigation for the Euro Area”(6) un working paper scaricabile, non a caso, dal sito della B.C.E. Tale paper rivela che un rapporto Debito/PIL dal 90% al 100% ha un impatto deleterio nel lungo periodo. Lo studio è stato condotto analizzando i dati di 12 Paesi dell’area Euro (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e tengono conto dei dati a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Sono stati presi in esame i dati relativi al (i) risparmio privato, (ii) gli investimenti pubblici, (iii) la produttività totale ed (iv) il tasso reale sul debito a lungo termine. Il paper non rende con immediatezza il livello di debito sostenibile e questo lo si desume dalla mancanza di perentorietà di alcune frasi riportate come “livelli elevati di debito pubblico sono probabilmente deleteri per la crescita” oppure come asserzioni tipo “la letteratura, in particolare la parte empirica, è scarsa al riguardo del rapporto tra debito pubblico e crescita economica”. Resta comunque un lavoro da studiare ed osservare, più che altro per la metodologia utilizzata ed i riferimenti e le citazioni in esso riportati. Per esempio le citazioni di alcuni spunti di Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia nel 1985 per le ipotesi del ciclo vitale: “Modigliani (1961) perfezionando i contributi di Buchanan (1958) e Meade (1958) sostiene che il debito nazionale è un onere per le prossime generazioni, che si presenta sotto forma di riduzione del flusso di entrate da uno stock inferiore capitale privato. Diamond (1965) aggiunge che un elevato debito aumenti l’effetto negativo dovendo finanziare con le tasse l‘aumento degli interessi sul debito”.
Ci sentiamo di integrare, e con profonda umiltà, quanto asserito a suo tempo da Modigliani; grave sarebbe, in funzione dell’aumento del debito, lasciare in eredità povertà e crisi sociali. In sostanza questa citazione ci informa che la concessione di un prestito è legata a tanti fattori e che, per quel che riguarda l’indebitamento pubblico, se tale debito aumenta oltre determinate soglie psicologiche, può generare un aumento dei tassi di interesse i cui costi riverberano gli effetti sulla diminuzione di liquidità e sulla minore redditività delle attività economiche; quindi meno risorse utili da poter impiegare in altri settori in quanto utilizzati per coprire l’aumento degli oneri finanziari. Non a caso questo è un concetto prettamente aziendalistico. Infatti Modigliani ha condotto studi sulla variazione di Valore in base al mix Debt-Equity ossia di come comporre qualitativamente il passivo di uno stato patrimoniale, ossia le fonti, operando un giusto mix tra capitale di debito di terzi (obbligazioni, prestiti bancari) ed il capitale proprio (l’apporto dei soci o il finanziamento soci). Le conclusioni del paper sostengono che “dal raggiungimento del 90%-100% del rapporto Debito/PIL è associato un tasso di crescita a lungo termine inferiore” Ma questo studio rimane con un dubbio ossia “resta da stabilire se per valori inferiori al 90% sia valido questo studio”. Infatti hanno potuto verificare che sui punti (i) risparmio privato e (ii) gli investimenti pubblici, i dati ottenuti non sono assoluti ed inequivocabili, “una parte del debito pubblico accumulato è possibile che sia servito per finanziare gli investimenti e non i trasferimenti”.
I limiti di questo studio, per stessa ammissione di chi l’ha condotto, risiede nel voler dare delle medie e dei numeri tra paesi che notoriamente hanno approcci differenti, sistemi differenti, politiche differenti, culture differenti che incidono sulle scelte politiche e fiscali, quindi un numero che è 90%-100% del rapporto debito/PIL ma che potrebbe essere anche 70%-80%. Da qui viene fuori che il debito non è cosa buona ma quanto sia il limite invalicabile non è dato conoscere. Lo studio denota che la media del rapporto Debito/PIL dei dodici Paesi è del 78% e quindi lascia alibi a quei Paesi dell’Unione al di sotto di quella media non lasciando scampo, o margini di manovra, a quelli al di sopra di quella media. Occorrerebbe spiegare anche come poteva il sistema Italia avere un rapporto Debito/PIL elevato ed essere al contempo la quarta o quinta potenza economica al mondo. Con ogni probabilità, seppur ognuno per i propri fini, vi fu una convergenza tra le politiche monetarie e le politiche fiscali, non voluta ma efficace. Ci riferiamo alla famosa svalutazione del 1992, l’ultima per l’Italia (7). Effettivamente, e ciclicamente la Lira, diciamo così, si concedeva svalutazioni competitive e, tornando per un attimo a quanto detto sopra, è uno degli strumenti di politica monetaria che la B.C.E. non può percorrere. Domanda ancora senza risposta: quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento?
Ma torniamo alla pubblicazione dell’Osservatorio C.P.I. La trattazione continua con Galli che affronta il famoso “divorzio dell’ottantuno”. Ne abbiamo parlato prima ma è utile rivedere alcuni dati in esso riportati. Anche in questa sede si continua a sostenere, senza dire o sapere quale sia il limite di indebitamento sostenibile, che il debito è stato generato a partire dal 1975 grazie a deficit primario, ossia spese finanziate a deficit al netto degli interessi sul debito stesso. Ci permettiamo di ribadire in questa sede che il processo del “divorzio” non ebbe inizio nel 1981 ma da qualche anno prima. Se pur i dati siano inconfutabili e condivisibili la ragione di questa presa di posizione è ben spiegata da quello che rispose in un’intervista rilasciata al Sole24Ore da Andreatta: “La soluzione classica al problema dell’inflazione sarebbe stata quella di una stretta del credito, accompagnata da una stretta fiscale ma avrebbe creato una recessione con la caduta di alcuni punti del Pil, come era accaduto nel 1975. L’imperativo era quindi quello di cambiare il regime della politica economica, che è qualcosa di più e di diverso dal cambiare la politica economica. Facendo queste proposte era mia intenzione drammatizzare la separazione fra Banca d’Italia e Tesoro per operare una disinflazione meno cruenta in termini di occupazione e di produzione, sostenuta dalla maggiore credibilità dell’istituto di emissione una volta che esso fosse liberato dalla funzione di banchiere del Tesoro.”
Quindi l’operazione serviva per dare credibilità alle azioni intraprese. Alla base vi sono sempre scelte politiche ed in quel caso si decise che andavano cambiate alcune cose nel nome dei “mercati” che dovevano acquisire fiducia verso il sistema Italia. Come abbiamo detto in precedenza, chi teme l’inflazione, la tassa da inflazione, sono quei soggetti che non hanno possibilità di adeguare i propri redditi al costo della vita reale ed anche i mercati finanziari che non amano vedersi depauperare gli investimenti in modo sostenuto. Infatti l’inflazione trasferisce le risorse dai creditori ai debitori. Fu una scelta di politica economica perché occorreva scrollarsi di dosso la sensazione che la Lira, con le sue svalutazioni, creasse un clima di incertezza. Tali concetti sono stati semplicemente travasati nei compiti della B.C.E. Termina il paragrafo con l’interrogativo concernente ancora il problema irrisolto del debito pubblico che aumenta e non si arresta. Siamo anche qui a porre di nuovo la stessa domanda: quale dovrebbe essere il limite dell’indebitamento?
Stante la situazione attuale, è assodato che per aumentare il PIL occorra aumentare il debito e che quando parliamo di debito non bisogna riferirsi al solo debito pubblico. Riassumendo brevemente il lavoro svolto dall’Osservatorio C.P.I. si evince che:
- non è stato fissato, con assoluta certezza, il limite massimo di indebitamento;
- non è stato definito il giusto mix tra debito privato e debito pubblico;
- il moltiplicatore fiscale non è infallibile;
- un maggior debito, per effetto degli interessi passivi su quel debito, incide negativamente sulla crescita di ricchezza rallentandola;
- stati con il più alto PIL sono anche quelli maggiormente indebitati;
- gli studi effettuati sull’Europa a 12 hanno condotto ad un risultato non applicabile a tutti gli Stati ma ha solo evidenziato delle medie di risultati degli Stati presi in esame;
- gli Stati analizzati hanno confermato tendenze differenti in base alla politiche fiscali adottati singolarmente.
I risultati degli studi condotti non possono essere negati, certamente, ma il fatto che non si riesca a percepire “la” soluzione anziché “una” generica soluzione, non contribuisce certamente alla determinazione del problema. Dire semplicemente che un maggior indebitamento sia deleterio può essere vero ma non sufficiente, questo perché, genericamente, tutti siamo consapevoli che questo sistema prevede l’indebitamento per la crescita del PIL. Gli Stati, tutti, hanno necessità di investire gli impieghi acquisiti dalle fonti per realizzare i propri piani di spesa; tradotto, tutti gli Stati, nessuno escluso, hanno necessità di fare debito, tramite l’emissione di TDS, per ottenere i mezzi finanziari da impiegare affinché si dia seguito alle politiche fiscali intraprese. Dire semplicemente che solo un maggior debito pubblico sia causa, e non anche concausa, del rallentamento crea gli spread in quanto induce tutti a rivolgere l’attenzione sul debito e non sulla potenziale profittabilità ottenuta grazie a quel indebitamento. Profittabilità è un termine mutuato dall’economia aziendale ma noi tutti sappiamo che adottare questo termine per spiegare le politiche fiscali degli Stati potrebbe essere inappropriato; lo Stato non è un imprenditore, o meglio, lo scopo di uno Stato non è quello di fare l’imprenditore ma quello di erogare ed amministrare principalmente i servizi non acquistabili sul mercato.
Lo è un bene non acquisibile sul mercato, per esempio, la pubblica sicurezza, l’amministrazione della giustizia, il funzionamento dell’apparato centrale dello Stato. Certo, alcune funzioni potrebbero essere esternalizzate ed acquisite sul mercato ma quelle strategiche no. Resta inteso che stiamo facendo riferimento a stati democratici che non adottano sistemi comunisti dove non esiste la proprietà privata. Poi è anche vero che gli Stati possano detenere quote di partecipazioni in aziende produttive come quote in società di gestione aeroportuali, di gestione delle acque, di smaltimento rifiuti. Del resto anche i servizi sanitari prevedono la coesistenza del pubblico e del privato al contempo, ma buona parte della spesa pubblica afferisce a servizi non acquisibili sul mercato. Il debito contratto per far fronte a questi piani di spesa “improduttiva” è costo che non produce reddito per se stesso ma servizi erogabili ai fini della redistribuzione della ricchezza sotto forma, appunto, di servizi e non a scopo di lucro. Le spese di uno Stato, per loro natura, non producono valore aggiunto; possono solo generare perdite (ci riferiamo a perdite economiche, non certo all’arricchimento sociale) e queste perdite vengono sostenute dalle entrate fiscali, dalle alienazioni dei beni dello Stato, dal ricorso al finanziamento tramite l’emissione di T.D.S., tutte variamente mixate.
Ed è anche errato pensare che solo grazie alla spesa pubblica si ottenga maggior P.I.L. In nessun testo di economia troveremo mai l’identità G ≡ Y; è errato e totalmente fuorviante pensare o far credere che non ci possa essere reddito senza la spesa pubblica o che in assenza di spesa pubblica non ci sia l’attività di impresa. Di conseguenza è fuorviante asserire che il solo eccessivo debito pubblico sia la causa della depressione di un sistema economico produttivo. La conseguenza è che potrebbe essere limitativo sostenere di poter misurare la salute di un intero sistema produttivo con il rapporto Debito/PIL perché, se è vero che maggior debito equivale a maggior interessi passivi e che maggior interessi passivi equivale a minori disponibilità da investire a causa del prelievo fiscale è anche vero che migliori performance contribuiscono ad assorbire gli effetti negativi degli interessi passivi ma soprattutto nell’ottica che, in questa fase, non è possibile ottenere strumenti monetari se non ricorrendo all’indebitamento e tali strumenti monetari devono essere impiegati nella produzione; in pratica non può esistere produzione se non si ricorre al capitale di terzi.
Un’altra prospettiva
Vi è però, un’altrettanta posizione poco conosciuta alla massa ma abbastanza condivisa in ambito accademico. L’interessante articolo pubblicato dall’International Journal of Political Economy dal titolo “Lost in deflation: why Italy’s woes are a warning the whole eurozone” a firma dell’olandese Servaas Storm, del Dipartimento di Economia, Università Tecnologica di Deft (8). Già dal suo abstract ci chiarisce che “Utilizzando dati macroeconomici per il periodo 1960-2018, questo articolo analizza le origini della crisi del capitalismo italiano post trattato di Maastricht. Dopo il 1992, l’Italia ha fatto più della maggior parte altri membri dell’Eurozona per soddisfare le condizioni dell’UEM in termini di consolidamento fiscale auto imposto, riforma strutturale e contenimento dei salari reali – e il paese ebbe innegabilmente successo nel portare riduzione dell’inflazione, moderazione dei salari, gestione delle eccedenze fiscali primarie, riduzione della disoccupazione, e aumentare la quota di profitto. Ma la sua aderenza al regolamento UEM ha asfissiato i la domanda ed esportazioni del Paese italiano – e non ha provocato solo un ristagno economico e un rallentamento della produttività generalizzata ma il declino relativo e assoluto in molte dimensioni importanti dell’attività economica. La cronica carenza di domanda dell’Italia ha chiare fonti: (a) perpetua austerità fiscale; (b) permanente contenimento salariale reale; e (c) una mancanza di competitività tecnologica, che in combinazione con un euro sopravvalutato indebolisce la capacità delle imprese italiane di mantenere le proprie quote di mercato globali il volto della crescente concorrenza dei paesi a basso salario. Queste tre cause riducono la capacità di utilizzo. Ridurre la redditività dell’azienda ha danneggiato gli investimenti, l’innovazione e la diversificazione. Il regolamento dell’UEM, quindi, blocca l’economia italiana in declino economico. Le analisi sottolineano la necessità di porre fine all’austerità e ideare investimenti pubblici e politiche industriali a migliorare la “competitività tecnologica” dell’Italia e fermare la divergenza strutturale tra l’economia italiana e quella di Francia / Germania. Il problema non è solo quello di rilanciare la domanda nel breve periodo (che è facile) ma per creare un processo auto-rafforzante di investimenti guidati e di innovazione-processo guidato di lungo periodo.”
Fin troppo chiaro. Risulta normalmente martellante da parte degli incaricati della BCE acquisire dati ed informazioni economiche da strutture che desiderano divulgare la necessità di diminuire il debito pubblico; questi faranno riferimento solo a studi che aiutano ad assecondare questa posizione e non altre. L’impressione è che l’Italia non avrebbe dovuto aderire all’unione monetaria, visti i risultati, e considerando che la struttura economica dei paesi del nord necessitano di un cambio fisso mentre quelli del sud di un cambio fluttuante con svalutazione competitive, l’Italia si è trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato. L’avvisaglia si era avuta anche in occasione dell’attacco speculativo alla Lira nel 1992. In quel periodo la Lira, propedeuticamente ed insieme alle altre valute europee, faceva parte dello SME. Lo SME prevedeva tassi di cambio fissi con lievi oscillazioni ed i Governi si impegnavano a mantenere quelle parità pattuite con interventi che prevedessero la mutualità di intervento per mantenerla tale (9). In occasione del famoso attacco alla lira del 1992 la Banca d’Italia bruciò 70 mila miliardi di Lire di riserve valutarie e, ad un certo punto, la Bundesbank comunicò all’allora Governatore della Banca d’Italia che non avrebbe più effettuato nessun intervento a sostegno, decretando l’uscita dell’Italia dallo SME.
In seguito si venne a sapere che, contrariamente agli accordi tra i Governi, lo statuto della Bundesbank non prevedeva nel suo mandato la possibilità di causare inflazione con i previsti interventi mutualistici e di salvataggio e questo fu sottaciuto dall’allora cancelliere tedesco. Infatti non è un caso che quello del contenimento dell’inflazione è un punto nodale ed invalicabile della BCE, come abbiamo riportato in precedenza, tanto da dover essere imposto e previsto nello statuto stesso della Banca Centrale Europea per assecondare tale necessità tedesca. Vien da assumere, quindi, che il problema italiano non sia affatto del tipo “debitaristico”, lasciate passare il neo-termine ad uso e consumo di quelli che pensano che il problema sia il debito, ma prettamente monetario. Infatti, come sostiene lo studio condotto dal Prof. Servaas Storm, l’Italia ha bruciato enormi capitali, risorse, ricchezze, redditi, potere d’acquisto immolandole nel nome della chimera che va sotto il nome di parità monetaria europea, e continua a sacrificarla nel nome di un’altra chimera, ossia quello del cambio fisso.
La redditività del capitale investito
Chi sostiene che uno Stato sia valutabile alla stregua di un’impresa commette un grossolano errore. L’impresa persegue lo scopo di lucro, ossia creare surplus, lo Stato ha lo scopo di erogare servizi e trasferimenti che possono anche comportare la non economicità delle decisioni varate. Allora perché ricopre particolare interesse l’analisi del rapporto Debito/PIL? La spiegazione ci è fornita proprio dagli studi dell’Osservatorio C.P.I. e dalle citazioni in esse contenute: “se i tassi sono alti perché il debito pubblico è alto occorre migliorare i fondamentali” ed anche “Diamond (1965) aggiunge che un elevato debito aumenti l’effetto negativo dovendo finanziare con le tasse l‘aumento degli interessi sul debito”. La finanza pubblica viene vista come elemento di trasmissione indiretta delle scelte effettuate che riverberano i propri effetti sugli interessi in quanto, pur essendo alcune nazioni, come l’Italia, sostanzialmente e costantemente in avanzo primario, “l’aumento degli interessi” deve prevedere la copertura o con l’aumento delle imposte, o con la vendita dei beni demaniali, o con il taglio della spesa o con vari livelli di mix di tutte e tre le azioni. In generale, con gli studi portati ad esempio, la via più celere è quella del taglio della spesa pubblica che, in sostanza, sta a significare taglio dei servizi, in particolare, verso quei settori non percettori di redditi tali da poter sopperire a questa evenienza. C’è da aggiungere che nulla vieta alla politica di adottare tali misure ma occorre sempre fare i conti con il framework normativo di riferimento, in particolare la carta costituzionale; al di sotto di certi livelli minimi la nostra carta costituzionale non concede discrezionalità ai fini del perseguimento di una violenta soppressione dei servizi sin qui erogati, ergo, sotto determinate soglie di spesa pubblica non è concesso avventurarsi.
E quindi non rimane che rivolgersi alla vendita dei beni demaniali o all’aumento dell’imposizione. Dalla vendita dei beni demaniali non si ottiene molto, anche se il patrimonio dello Stato italiano è consistente. Da una pubblicazione del MEF, aggiornata al 2016 e della cui consistenza delle attività non finanziarie si ha contezza per circa l’80% (tale è la parte censita ai fini della valutazione), risulta che lo Stato italiano sia proprietario di circa 987 miliardi di euro (10) di cui circa 676 miliardi di euro si riferiscono ad attività finanziarie e la differenza di 311 miliardi di euro in attività non finanziarie. Non tutto è cedibile, per ovvie ragioni strategiche, quindi rimane solo la tassazione “t” che, essendo prelievo in funzione di “Y” (reddito) coeteris paribus, all’aumentare della stessa viene a comprimersi la possibilità di crescita. Non proprio l’ideale ai fini delle catene di trasmissione. A tal proposito è nota la consistenza del patrimonio di cui è proprietario l’intero sistema italiano, intendendo quindi sia il patrimonio pubblico, enumerato sopra, sia il patrimonio di aziende e persone fisiche dei cittadini italiani. Risulta essere, tale patrimonio, di rilevante consistenza, superiore a buona parte di tutti gli altri paesi dell’area Euro. Nel 2017 si stimavano in un totale complessivo di € 15.612 miliardi il patrimonio complessivo dei beni detenuti da famiglie ed imprese (11) suddivisi in questo modo:
Quindi le famiglie detengono il 68% della ricchezza e le imprese il restante 32% mentre complessivamente il sistema Italia propende a detenere ricchezza reale, per il 60%, ed il restante 40% in attività finanziarie. I dati Eurostat in tal senso ci danno conforto (12) (13) (14). É anche sotto questo aspetto che va condotta un’analisi comparata. Occorre prendere atto, come detto in precedenza, che le performance di un sistema Stato viene valutato rapportando il Debito Pubblico al PIL, ripetiamo, il debito di un solo settore, la spesa pubblica G, con il Reddito prodotto da tutti i settori Y ≡ PIL. Ma questo rapporto, il Debito/PIL, non spiega tutto. Infatti rende degli indicatori non puntuali ed assoluti ma solo indicativi di un certo aspetto, ossia, maggior debito – maggior interessi sul debito (tra l’altro di un solo settore ossia i di G) – maggiori tasse per coprire finanziariamente i di G che ritarda o comprime rovinosamente lo sviluppo e la capacità di creare più reddito.
Anche le aziende devono porre particolare attenzione al grado di indebitamento quando fanno ricorso al capitale di terzi per porre in atto l’attività produttiva e tale attenzione viene riposta controllando il rapporto che lega il R.O.I. (Return On Investiment) con il R.O.D. (Return On Debts). In termini percentuali, il primo “riflette l’economicità della sola gestione caratteristica ed indica per ogni euro investito in tale gestione quanti centesimi si sono guadagnati”, mentre il secondo “indica, in termini percentuali, per ogni euro di capitale di credito, quanti centesimi vanno pagati” (15). Del resto, “la sua capacità segnaletica emerge dal confronto con il ROI…pur non esistendo valori ideali, è opportuno che tale indice non superi il ROI, in quanto in caso contrario si avrebbe una progressiva distruzione di ricchezza riconducibile all’effetto negativo della leva finanziaria”. Quindi il limite dell’indebitamento lo si trova quando il costo degli interessi, in termini percentuali, eguaglia, sempre in termini percentuali, il rendimento ottenuto dal capitale investito. Anzi, ad essere più precisi, possiamo avere questi casi:
ROI > ROD = leva finanziaria positiva – si può ricorrere ancora all’indebitamento;
ROI = ROD = leva finanziaria indifferente – si può e non si può aumentare l’indebitamento
ROI < ROD = leva finanziaria negativa – non si può aumentare l’indebitamento
Pur essendo consapevoli che i dati aggregati nazionali non considerano tutti i conti che formano il “capitale investito” possiamo ottenere valori attendibili mettendo a rapporto il valore del patrimonio “assets” che concorrono alla produzione del reddito Y ≡ PIL.
Come detto in precedenza il database dell’Eurostat consente l’acquisizione di alcuni dati. Per omogeneità abbiamo rivolto l’osservazione agli stessi Paesi considerati nel paper “The impact of high and growing government debt on economic growth. An empirical investigation for the Euro Area”, ossia: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna. L’analisi è stata condotta per gli anni che vanno dal 2013 al 2017 con lo scopo di rilevare i dati relativi a:
- Government consolidated gross debt;
- Interest payable;
- Total fixed assets (net);
- Gross domestic product at market price.
Secondo i dati desunti, l’Italia risulta essere in prima posizione per quanto attiene al punto 1), ed in prima posizione anche per il punto 2) mentre è in terza posizione per quanto afferisce il punto 3) come pure in terza posizione per il punto 4). Per una puntuale e corretta visione d’insieme riteniamo opportuno riportare i dati in tabelle.
Le informazioni desunte dalla banca dati di Eurostat ci rendono un quadro che permette di effettuare anche altre analisi rispetto a quello che comunemente viene riportato dalle analisi dominanti. Possiamo pensare che da una certa parte della barricata, intendendo l’Unione Europea, la comunicazione ufficiale preferisce fissare il punto sul problema del debito piuttosto che sulla capacità di produrre reddito grazie al debito contratto. Però vi è anche da aggiungere e da sottolineare, in particolare, che chi contrae debiti non si espone verso terzi senza avere un minimo di consapevolezza che con le scelte intraprese si possa ripagare quel debito. In generale, è bene sottolineare, uno Stato non tende mai a ripagare interamente il debito bensì a rinnovarlo, attuando il cosiddetto rollout. Attuando questa pratica diventa essenziale far percepire ai “mercati” che il sistema tiene ed è affidabile e degno di fiducia mentre trasmettere le sole risultanze del tipo maggior debito = minor crescita è minimizzante rispetto anche ad altri aspetti che dovrebbero essere considerati. Del resto i dati stessi di Eurostat ci autorizzano a fare altre considerazioni. E quindi prendiamo nota che nel quinquennio considerato cinque paesi hanno ridotto il debito pubblico e sono Germania, Irlanda, Grecia ed Olanda mentre le altre hanno aumentato la loro esposizione. Tra quelle che hanno aumentato l’esposizione la Spagna ha registrato l’aumento massimo e l’Italia quello minimo (rispettivamente 17% e 9%). Dalla parte del reddito notiamo che il paese che ha fatto registrare il maggior aumento è stata l’Irlanda (+ 65%) mentre la Grecia registra un decremento (-0,24%). Da questo primo giro possiamo notare dati contrastanti. La diminuzione dell’esposizione sembrerebbe aver favorito Germania, Irlanda ed Olanda e sfavorito la Grecia nonostante la poderosa cura a cui è stata sottoposta. Inoltre il dato dell’Irlanda, in termini di crescita, è sostenuto rispetto alle altre. E’ probabile che l’attuazione di politiche predatorie, come la creazione di piccoli paradisi fiscali all’interno della stessa Unione, abbiano favorito oltre misura il rilancio di questa economia a discapito di altre. Cosa che ha attuato anche l’Olanda. Ma chi fa registrare la miglior performance rispetto alla redditività del capitale investito? Ossia, qual’è quel sistema paese che mette più margine tra il costo del capitale preso in prestito ed il rendimento del capitale investito grazie al debito contratto? Partendo dalla tabella degli assets dei dodici Stati, oggetto dell’analisi è possibile ricostruire il dato posto in domanda.
Gli investimenti in assets produttivi segnano il passo. L’Italia è al penultimo posto, come incremento, con lo 0,54% rispetto al 2013. L’ultima è la Grecia che ha assistito ad un disinvestimento generale (-12%). Chi ha effettuato investimenti ed ha incrementato il valore di tali assets è l’Irlanda con + 91%. Se analizziamo il valore lordo degli assets, la Grecia resta fanalino di coda (-5,76%), Italia ed Olanda molto vicini (3.70% e 3,72) e prima in questa classifica sempre l’Irlanda (+ 85,89%).
Dopo questa panoramica riusciamo a comprendere che la Grecia, nonostante la imponente ristrutturazione, non ha visto rinnovare i propri assets e quindi pochi sono stati gli investimenti in tal senso mentre l’Irlanda ha avuto la possibilità, grazie alle politiche fiscali dette in precedenza, di poter operare corposi investimenti. L’Italia segna il passo.
Le ultime tabelle riguardano le percentuali di indebitamento e le percentuali di reddito sugli investimenti:
Mettendo a rapporto gli interessi sul debito pubblico con il debito pubblico scopriamo che negli ultimi 5 anni tutti hanno visto al ribasso il tasso effettivo. La migliore performance l’ha avuta la Germania, registrando un –43,86% (dal 2,33% al 1,62%), mentre la peggiore performance l’ha avuta il Portogallo con -22,68% (dal 3,68% al 3,00%). Anche l’Italia ha visto abbassare l’incidenza del costo del capitale preso a prestito con percentuali simili all’Olanda.
Dall’esame di questa ultima tabella riusciamo a dare una risposta alla domanda relativa al limite dell’indebitamento sostenibile. Tutti i Paesi mostrano una leva positiva e quindi tutti possono avere libero accesso ai mercati finanziari ma occorre fare dei distinguo. L’Irlanda negli ultimi cinque anni ha contratto la sua capacità di saper estrarre reddito dal capitale investito, la Grecia ha aumentato la propria capacità, Francia ed Austria preoccupantemente e sostanzialmente stabili, l’Italia è terza in questa speciale classifica circa l’aumentata capacità nel corso degli ultimi cinque anni. L’Italia, in valori assoluti, recupera molto terreno nei confronti della Germania attestandosi entrambe su circa € 0,30 di redditività per ogni euro investito.
Anche gli indici di correlazione ci confermano che sono più gli assets che influiscono sulla determinazione del reddito che non il debito ed ancor meno gli interessi passivi che, beninteso, influiscono comunque sul PIL ma in misura meno rilevante rispetto agli assets. Quanto asserito sta a significare che il PIL risente maggiormente dell’influenza causata più dagli investimenti che dal debito contratto per ottenere gli investimenti stessi:
Come vanno letti questi dati? Il valore in corrispondenza di “r” indica la correlazione esistente tra le due variabili. Più il valore è prossimo ad 1 o a -1 e più si avvicina alla perfetta correlazione, in senso sia positivo e sia in senso negativo, mentre il valore in corrispondenza di “r quadro” sta ad indicare la forza di correlazione ed è espressa in percentuale e quindi più è vicina al 100% e più la forza di correlazione è forte. In tutti e tre i grafici viene dimostrato che c’è maggior correlazione tra le variabili PIL ed Assets e meno tra PIL ed Interessi Passivi. La correlazione tra PIL e Debito Pubblico esiste, in misura minore rispetto al PIL ed Assets ma la forza di quest’ultimo è più forte (quasi 100%) degli altri “r quadro”. Inoltre, analizzando il decorso delle correlazioni nel corso degli anni, la correlazione PIL – Assets ha acquisito sempre più corrispondenza e con maggior forza mentre le altre due correlazioni si sono mosse al contrario perdendo man mano forza. Da questi calcoli risulta, ed è dimostrato, quanto sostenuto durante la trattazione, ossia, che non va analizzato solo il Debito Pubblico ma la profittabilità che il Debito Pubblico permette se gli investimenti sono indirizzati nella giusta direzione.
Conclusioni
La letteratura dominante vuole che i Paesi con più alto debito non siano meritevoli di credito, scontando un tasso di interesse maggiore (spread) per l’acquisizione di capitali sul mercato. Il presupposto parte dagli studi che evidenziano che maggior debito = maggior interessi passivi = minor capacità produttiva. Tale approccio è limitato in quanto il limite dell’indebitamento non è dato dal valore assoluto del rapporto Debito/PIL ma dalla capacità di estrarre valore dai capitali presi in prestito.
Studi altrettanto autorevoli hanno dimostrato che l’Italia paga, in termini di crescita del PIL (e non in capacità produttiva ed estrattiva di valore) l’aver voluto effettuare politiche auto imposte per rientrare e restare nell’unione monetaria a condizioni non ideali per la propria economia.
Alla luce di questo piccolo contributo è stato dimostrato che le valutazioni non devono fermarsi alla sola analisi dell’indebitamento ma analizzare la capacità di saper estrarre plusvalore dagli investimenti.
Infatti se la capacità estrattiva o creativa di plusvalore è maggiore del costo dell’indebitamento, la dottrina indica che è opportuno aumentare l’esposizione debitoria in quanto il plusvalore sarà capace di coprire tutti i costi che hanno concorso alla produzione del plusvalore, ovvio, inclusi gli interessi sul debito ed alla luce del fatto che il sistema Italia consegua, in sostanza, le stesse performance di plusvalore della Germania, la discriminante resta l’utilizzo di uno strumento monetario che penalizza enormemente il sistema Italia a vantaggio dei paesi del nord.
16/05/2020, Massimiliano Scorrano
note
2) https://osservatoriocpi.unicatt.it/
6) https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1237.pdf
9) https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/08911916.2019.1655943
12) https://ec.europa.eu/eurostat/data/database
13) https://ec.europa.eu/eurostat/web/national-accounts/overview
14) https://ec.europa.eu/eurostat/web/income-and-living-conditions/overview
15) Controllo di Gestione e performance Aziendale, Prof. Pierluigi Lizza, Giuffrè Editore