Classe ’80, siciliano di Catania e laureato in Lettere, Antonio Rapisarda si è fatto le ossa nelle scuole di giornalismo a partire proprio dal Secolo d’Italia, la storica testata della destra italiana a cui, alcuni giorni fa, ha fatto ritorno nelle vesti di Direttore responsabile. Si tratta dell’ultima tappa (per il momento) di un solidissimo percorso professionale fatto di collaborazioni importanti con il Giornale, Panorama, Il Tempo e Libero per la carta stampata e, tra gli altri, Quarta Repubblica con Nicola Porro e Anni 20 su Rai2 come autore televisivo.
Tra tutte queste prestigiose esperienze, ce n’è una che più di tutte testimonia che Antonio è l’uomo giusto al posto giusto: 12 anni fa, fu proprio lui a curare il volume “60 anni di un Secolo d’Italia” compito che, come racconta lui stesso con una punta di emozione, «mi fu affidato dalla Fondazione An e dal direttore di allora, De Angelis, che ringrazio ancora per avermi affidato il racconto di questa straordinaria avventura. Per me si è trattato di una vera e propria scoperta: la storia di un’epopea giornalistica letta attraverso le più grandi firme del Secolo “riletta” insieme alle testimonianze di protagonisti del calibro di Ezra Pound, Gian Paolo Pansa oppure Marco Pannella che racconta Giorgio Almirante».
Antonio, non amando i convenevoli di facciata ti do del tu: com’è tornare da Direttore dopo un’esperienza simile e nel pieno di un momento storico così importante?
È un ritorno “a casa” più che gradito, è un grande onore, è una grande responsabilità. Un ritorno che si innesta in una fase decisamente intrigante: la destra politica, dopo l’exploit alle Politiche, si candida a gestire una rivoluzione copernicana in Europa. Con una premier come Giorgia Meloni che, ricordo, è anche giornalista del Secolo d’Italia. Con questi “ingredienti” d’eccellenza e una sfida editoriale già di per sé così affascinante…
Elezioni europee e presidenziali americane: il 2024 potrebbe cambiare i connotati dell’Occidente. Siamo di fronte a due visioni opposte, da una parte la sinistra radicale in preda ai fanatismi dell’ideologia woke che vorrebbe azzerare tutto, dall’altra invece i conservatori, che vogliono invece mantenere i valori propri della Civiltà Occidentale. Ecco, stando all’Italia, secondo te quali saranno i temi più importanti di questo dibattito?
Beh, alcune delle questioni che hai posto tu. Appunto la difesa della civiltà europea e occidentale; da europeista convinto amo questo ordine gerarchico. Ci sarà sicuramente una grande contrapposizione, sarà quindi interessante seguire questi due appuntamenti a distanza di pochi mesi, perché forse mai come adesso le due sponde dell’Atlantico sono interessate da fenomeni molto simili. I movimenti identitari, conservatori, nazionali, che cercano di dare una risposta concreta non solo alla grande crisi nichilista cominciata almeno 30 anni fa, vedendoci passare dalla Generazione X a quella “fluida”. Un fronte che, sia Europa sia negli Stati Uniti, si contrappone a una sinistra che io definirei ormai post-umana, nel senso che ormai ragiona in termini non più dialettico-economici, chessò, sulla forma di Stato, o di redistribuzione economica, ma mettendo in discussione antropologicamente l’uomo in sé. Il fatto, venendo alla stretta attualità, che le ragioni degli agricoltori siano connesse alla proposta politica della destra – e includo in queste non solo quella dei conservatori e degli identitari, ma anche settori ampi dei popolari – significa che la ricetta di questo destra-centro in chiave continentale, per quanto tutta da formulare e da mettere a terra, rappresenta una sfida entusiasmante. Tutta da raccontare.
Entusiasmante ed epocale, no?
Sì, assolutamente, anche epocale.
È fondamentale offrire una chiave di lettura che innanzitutto aiuti a decifrare i grandi cambiamenti che sono in atto. Tu hai citato l’esempio dei trattori, che io ritengo emblematico di un nuovo bipolarismo: da una parte abbiamo gli agricoltori, gli artigiani, le PMI, i lavoratori dipendenti, le partite iva… insomma l’ex classe media che fa quadrare i conti in casa e che magari non può permettersi l’auto elettrica e dall’altra i fanatismi di una sinistra che, ipocritamente, propina un’idea di sostenibilità che avvantaggia sempre le multinazionali che producono in Cina.
Sempre più chiaro. Infatti, ricordiamo che dalla protesta di Seattle la sinistra passò dalla definizione no global a new global. Quella nuova definizione svelò la grande truffa, cioè una sinistra non più orientata a contrastare ontologicamente la globalizzazione e il capitalismo in quanto due le facce della stessa medaglia. La lotta di classe è diventata lotta “per” le cosiddette minoranze, lotta dei cosiddetti ultimi che si è connessa con l’idea di una società senza confini, senza identità, senza specificità che è consustanziale al prodotto globale. Cioè un prodotto che per essere venduto in serie deve costare poco ed essere anche senza identità, perché chiaramente un popolo con una propria specificità mangerà in un certo modo, si vestirà in un certo modo, penserà in un certo modo, andrà a votare in un certo modo. La sinistra internazionale è diventata il Cavallo di Troia di questo grande pensiero globale. Il risultato? Le classi sociali radicate – a partire dal ceto operaio italiano – si sono spostato chiaramente a destra. Fenomeno accaduto anche nei distretti industriali americani, l’America profonda che poi si è riconosciuta nella proposta politica repubblicana di Trump. Questa cosa la si vede praticamente ovunque: in Francia, nei distretti dell’Alsazia, sono tutti elettori della destra.
Veniamo a un altro principio fondamentale, che si lega direttamente alla tua attività e al ruolo del Secolo d’Italia: il concetto di verità, che in questo contesto è manipolato da algoritmi e narrazione del mainstream, sempre sovrapposta a quella della sinistra. Una testata longeva come quella che dirigi che ruolo può giocare in questo contesto così difficile, ma allo stesso tempo tanto sfidante?
Guarda Alessandro, il Secolo d’Italia quest’anno compie 72 anni, ha rappresentato una certa visione dell’Italia e del mondo in tempi, per la destra, molto più duri di questi. Ricordiamo quando Angelo Mancia, lavoratore del nostro giornale, fu barbaramente ucciso dalla “volante rossa”. Erano tempi in cui si rischiava la vita lavorando o essendo vicini a questa parte politica. Questo per dirti che oggi è una fase sicuramente delicata, ma a differenza di quello che accadeva negli anni ‘70, ‘80 o ’90 possiamo dire che la proposta della destra sia passata e abbia piena agibilità, nonostante il sistema mediatico ostile. Tutto ciò grazie alla perseveranza di più generazioni e alla capacità di rigenerazione dimostrata con l’evoluzione dal vecchio Msi ad oggi. L’obiettivo strategico del Secolo d’Italia è quello di fornire ulteriori strumenti di comprensione sia nell’asse orizzontale che verticale per donare un pensiero originale all’informazione. Un pensiero originale su ciò che sta avvenendo: sul fenomeno Meloni, ma non solo, perché ricordiamo che il nostro è il giornale della Fondazione An che racchiude – e mi piace sottolinearlo – anime e storie situate in diversi contesti politici. Perché lo chiamo pensiero originale? Non solo perché ci poniamo l’obiettivo di dire qualcosa di diverso e di avere un punto di osservazione anche privilegiato rispetto ad alcuni fenomeni, ma soprattutto perché abbiamo la possibilità di raccontarlo dall’origine, questo fenomeno. Dal 1952 – dall’anno di nascita – il Secolo ha rappresentato la voce più performante della destra, dell’informazione “da destra”.
Infine, visto che sei stato una tra le firme più autorevoli della Voce del Patriota, ti chiedo di salutare i nostri lettori.
La Voce del Patriota in questi anni per me è stata una grande esperienza, perché mi ha permesso in alcuni frangenti di sviluppare ragionamenti non convenzionali, insieme al direttore e collega Ulderico de Laurentiis, proprio sul fenomeno Meloni. È stato uno spazio in cui sono riuscito appunto a sviluppare in massima libertà e con grande condivisione una vera e propria fenomenologia che, sono convinto, in questa fase accompagnerà anche il lavoro che faremo al Secolo d’Italia. Quindi sono due testate, chiaramente molto diverse per storia, che però sono accomunate da questa grande direttrice: sanno da dove vengono e, soprattutto, sanno dove vogliono andare.