La notizia era arrivata nel cuore della notte, come tutte le notizie che cambiano qualcosa.
Non c’erano ancora le conferme ufficiali, ma bastava ascoltare bene la voce di certi vecchi telefoni che squillano solo quando è tempo di storia. Il Papa era morto. Francesco, il Pontefice venuto dalla fine del mondo, se n’era andato con la discrezione che non aveva mai cercato. E il mondo, come sempre, non era pronto.
Io ero a New York.
Dovevo partire per Roma tra due giorni. Un volo prenotato per pigrizia, senza urgenza, giusto per far visita a qualche fonte vaticana. Invece, in quella notte d’aprile, la città più rumorosa del pianeta aveva improvvisamente smesso di urlare. L’unico suono che sentivo era quello di un messaggio arrivato sul vecchio Nokia che tengo acceso solo per certi contatti.
“Non partire. La chiave è qui.”
Firmato: nessuno. Ma bastava il tono.
Central Park alle 7 del mattino è una cattedrale verde. La nebbia si appoggia sugli alberi come un incenso senza liturgia. Io cammino piano, ancora con la testa mezza a San Pietro e mezza a Columbus Circle, quando lo vedo.
Lui. Il cappotto nero.
Seduto su una panchina, identico all’ultima volta. Era stato solo qualche settimana fa, eppure sembrava passato un secolo. Sempre lo stesso sguardo, quello che ti fa sentire nudo anche con l’impermeabile addosso.
«Ben svegliato, cronista. Hai sentito le campane?»
«Dicono che non siano ancora suonate.»
«E allora sei ancora in ritardo.»
Mi siedo. Il caffè è freddo ma non importa. In quel momento, New York è solo il prologo di qualcosa che sta accadendo altrove. E lui lo sa.
«Trump volerà a Roma. Lo sanno tutti. Ma quello che non sanno è che non è lì per commemorare, ma per verificare. È da mesi che riceve briefing su chi potrebbe essere il prossimo papa.»
«Scusa, vuoi dire che…»
«Voglio dire che il pre-conclave è iniziato prima della morte del Papa.»
La Chiesa americana non ha un candidato.
Ma ha una rete. E la rete, quando non può dominare, cerca di filtrare. È così che mi racconta il cappotto nero: con frasi sospese tra analisi e profezia. Nessun documento, ma uno schema mentale preciso.
«In Texas, da gennaio, una fondazione legata a certi ambienti tradizionali ha fatto circolare una lista: “Compatible Papabili”. Non sostenibili, non ideali. Solo: non ostili.»
Sette nomi. Nessuno americano, ovviamente. Ma ci sono due africani, tre europei, un asiatico e un nome del Sudamerica. Il comune denominatore? Nessuno è un attivista in stile Bergoglio. Tutti sono affidabili.
«Affidabili per chi?»
«Per chi ha bisogno che il prossimo papa non complichi le cose. Per chi teme un Vaticano troppo amico delle ONG e troppo distratto dalla dottrina.»
«Sai chi ha rialzato la testa nelle ultime settimane? Un alto prelato canadese. Non per eleggere. Ma per preparare l’elezione.»
Ufficialmente in pensione, ma tutt’altro che fuori gioco.
«Non si candida. Ma fa sponda. Con l’America Latina, con certi francesi, con un paio di tedeschi stanchi delle confusioni dottrinali. È un kingmaker discreto. Parla poco. Ma quando parla, i cardinali ascoltano.»
Secondo la fonte, il prelato starebbe lavorando a un profilo latinoamericano, qualcuno che abbia il carisma di Francesco, ma meno esplosivo. Uno che possa unire i voti del Sud e placare le inquietudini del Nord. Un nome non ancora emerso, ma già discusso in ambienti chiave. Una figura “post-franceschista” senza essere anti-franceschista.
Poi, quasi tra sé e sé, aggiunge:
«Ci sarebbe anche un cardinale africano che parla come un profeta e ragiona come un diplomatico. È amato da chi sogna una Chiesa globale, ma è guardato con attenzione anche da chi vuole rendere di nuovo grande l’Occidente… come diga all’espansione cinese.»
Mi volto. Sorrido: sembra una provocazione. Ma il cappotto non sorride.
«E c’è anche chi sussurra – senza che venga scritto – che un cardinale cinese potrebbe già esserci. Nominato in gran segreto. Per motivi di sicurezza. Sarebbe un gesto epocale. Un Woytila del XXI secolo, pronto a picconare l’ultimo grande regime comunista. Ma… questa è un’altra storia.»
Intanto a Roma, il tempo si contrae. Il funerale è alle porte. I cardinali arriveranno tra poche ore. Alcuni sono già lì, in borghese. Altri mandano segnali attraverso le vie meno ufficiali: un editoriale prudente in un’agenzia dal nome sobrio, una nota a un giornalista tedesco, una dichiarazione ambigua in un’intervista TV.
C’è chi dice che certi dossier non vengano compilati dai media, ma da altri. Gente senza tonaca, con l’accesso alle linee giuste e un archivio mentale che farebbe invidia al Mossad. Si chiamano… fratelli informati.
«La stampa guarda a Sarah, Zuppi, Erdő. Ma i giochi veri si fanno sui nomi di scorta. I nomi che nessuno teme. E che proprio per questo… avanzano.»
«C’è anche un francescano in gioco. Uno che ha parlato con gli ebrei, con gli arabi e con Dio. Ma non con i giornalisti. Forse per questo… è ancora in partita.»
Poi si ferma un attimo. E aggiunge con un tono che non ammette ironia. Gli occhi sembrano più profondi.
«E non escludo nulla. In certi ambienti – quelli dove si conosce davvero il mistero – si sa benissimo che lo Spirito Santo gioca. Gioca sul serio. E non sbaglia mai. Io… ho visto cose, Nico. Cose che fanno tremare anche chi pensa di sapere tutto.»
E sorride. Ma questa volta, senza ironia.
Il cappotto si alza. Mi guarda un’ultima volta.
«Tu stai per partire. Ma ricordati: il conclave non è una scelta. È un equilibrio che cade su chi sa restare immobile al momento giusto.»
«Ci vediamo a Roma?»
«Forse. O forse lì sarai troppo vicino per vedere davvero. Ma fai attenzione… Quando sentirai parlare di “accordo transcontinentale”, non voltarti dall’altra parte.»
Poi svanisce, lasciando solo una bustina di zucchero sulla panchina. Sopra, scritto a penna:
“Non est elegere, sed discernere.”
[Continua – Prossima puntata: “Roma – Il silenzio prima delle campane”]