La polizia linguistica colpisce ancora. E la lunga lista di parole che non si possono più dire si allunga. A finire nel mirino wokista questa volta è il termine “man” con tutti i suoi derivati. A puntare il dito, stavolta, è la Commissione europea che, dopo il disastroso documento sul linguaggio inclusivo del 2021 (che infatti è stato ritirato dopo poco), approda a delle nuove linee guida per cui al termine “man”, ovvero “uomo” devono essere preferiti termini maggiormente inclusivi.
“Ove possibile, utilizzare alternative per i termini contenenti ‘uomo’ per indicare persone di tutti i generi”, spiega la guida. Per cui anche parole tipiche del linguaggio comune, e che nulla hanno a che vedere con una immaginaria predominanza di genere, dovrebbero essere brutalmente eliminate e sostituite da espressioni per così dire ‘neutrali’.
Ed ecco che vocaboli come “tradesman” (ovvero commerciante) e “man-made” (ossia artificiale, costruito dall’uomo) non possono essere più utilizzati. E ancora, anche “uomo della strada” andrebbe abolito e al suo posto si dovrebbe usare “la persona media”. Financo il termine “virile” verrebbe sostituito con un più generale “vigoroso ed energico”.
Eppure, questa follia linguistica, a ben vedere, invece di rendere il linguaggio- e dunque la società-più uguale e libera, non fa che incatenare ancora di più e reprimere quella libertà di espressione che è anche il frutto di un lungo percorso storico e di una serie di battaglie che hanno reso possibile oggi parlare ed esprimerci nella maniera che più desideriamo.
Questa incessante esigenza di mettere alla gogna ogni termine, ogni parola, espressione o frase è una assurdità insensata che non fa che acuire, paradossalmente, la diversità tra le persone.
In tutto questo andrebbe infatti ricordato a coloro che invocano a gran voce l’inclusività di linguaggio, che la gente comune ha bisogno di parlare liberamente nella lingua con cui è cresciuta e che ha ereditato dalle generazioni precedenti. Una lingua che è anche e soprattutto depositaria di una storia, di una cultura e di una civiltà che si è costruita nel tempo e che dunque è la rappresentazione massima di una eredità culturale inestimabile.
E se è vero che alcune lingue cambiano con l’evolversi della società, questo paternalismo-a tratti isterico- esercitato dalla Commissione europea è piuttosto sintomatico di una realtà che è del tutto antidemocratica e di fatto non inclusiva.
Per non parlare poi del fatto che, forse, l’organo esecutivo europeo dovrebbe guardare un po’ di più ai problemi reali che affliggono i nostri territori, da quelli economici a quelli legati alla sicurezza e ai rapporti con l’esterno. E non vestire i panni di un cecchino della parola, colpendo ogni singolo vocabolo che si discosta da una certa visione imposta dal mainstream. Il che, francamente, non serve proprio a nessuno, se non a sprecare litri di inchiostro.
Ma, ahimè, sembra proprio che a Bruxelles non importi nulla. E quindi chi se ne importa se all’ordine del giorno abbiamo sbarchi di migliaia di clandestini, continui attentati terroristici e una difesa comune che fa acqua da tutte le parti. Per fortuna c’è la polizia della lingua che rimette ogni cosa al suo posto. O fuori, fate un po’ voi.