Sembra davvero non ci sia mai limite al peggio. Dalle anonime fake news si sta “naturalmente” e pericolosamente passando alle notizie false e tendenziose pubblicate su importanti quotidiani nazionali. Il linguaggio porta in sé un’ambiguità intrinseca che lo porta ad essere facilmente sfruttato per i propri fini propagandistici. Non è una novità. Fin dall’antica Grecia, come insegna la sofistica, il relativismo comunicativo era la premessa all’arte retorica usata per perorare le proprie posizioni filosofiche. Da questo nobile uso (comunque quasi sempre teso alla ricerca del vero), a seguito del relativismo etico e cognitivo imperante, si sta diffondendo questa pericolosa e malsana abitudine di violare le regole fondamentali all’economia della comunicazione.
Fatto ancora più grave è che lo facciano soggetti giuridici deputati alla comunicazione mediatica. Senza andare troppo in là basti ricordare un’importante lezione dei filosofi Habermas e Karl Otto Apel che negli anni ’60 riflettono sul tema della comunicazione sociale tra gli uomini intesi come soggetti pubblici linguisticamente strutturati in una comunità linguistica nella quale si forma la coscienza dei singoli individui. Secondo i due filosofi ogni partecipante di un’argomentazione razionale sensata deve presuppore implicitamente le pretese universali di validità di giustezza (Richtigkeit), verità (Wahreit), veridicità (Wahrhaftigkeit) e comprensibilità (Verstaendlichkeit). Se dovesse venire a mancare anche una sola di queste pretese crolla la possibilità di una intesa tra gli interlocutori.
Queste premesse oltre ad un’evidente funzione logica hanno anche una funzione etica che definiscono appunto l’ “etica del discorso” (Diskursethik) che sarà poi definita da Weber “l’etica della responsabilità”. Di fronte dunque alla pretesa di validità di proposizioni parziali, alcuni media, puntano al consenso attraverso una ingiusta pratica comunicativa che ha ripercussioni sulla vita sociale e politica di un paese. Nella “svolta linguistica” degli anni ’30 si è compreso che il linguaggio, essendo medio del pensiero, ha un’importanza fondamentale per la comunicazione di questo e dunque per la ricerca della verità.
In questo clima John Langshaw Austin formulò la teoria degli atti linguistici accorgendosi che le parole usate nella comunicazione non avevano mai la mera funzione di descrizione dell’enunciato che componevano. Al contrario secondo questo filosofo e linguista inglese, ogni enunciato porta in sé tre forze fondamentali: locuzione, illocuzione e perlocuzione. Rispettivamente questi tre aspetti riguardano la struttura dell’enunciato, l’intenzione comunicativa e l’effetto pratico che questo ha sul mondo e sugli agenti comunicativa. Da qui si è compreso che “parlare” equivale effettivamente ad “agire” e dunque ad un mutamento performativo della realtà.
Questo atteggiamento pericoloso e irresponsabile, data la portata comunicativa dataci dai moderni mezzi di comunicazione, crea e disfà, nell’istantaneità della comunicazione in tempo reale, gruppi omogenei di consenso che hanno direttamente effetti sulla ricerca del bene comune e di conseguenza sull’andamento politico di un Paese, essendo proprio “il consenso” la base e l’essenza della democrazia. Organi pubblici, regolamentati da un albo, deputati alla diffusione dell’informazione dovrebbero dunque rispettare standard etici più elevati e non sentirsi in diritto di estrapolare aspetti parziali di discorsi irrorandoli di un nuovo senso postulatorio.
Ogni comunicazione linguistica dunque è da intendersi correlata mutuamente con le altre parti del discorso cui riferisce, con gli agenti linguistici e con lo sfondo culturale in cui nasce e si diffonde. Sembra assurdo per i propri scopi propagandistici utilizzare o tenere conto solo uno degli aspetti sopra elencati snaturando la portata aletica della comunicazione razionale della pubblica piazza che, se non sempre naturalmente giusta, perlomeno non dovrebbe intenzionalmente essere falsa.