La violenza omicida: eccezione tragica o evento implicito alla condizione umana?  

Circa cento anni fa il sociologo Emile Durkheim formulò una curiosa ipotesi  sulle origini della violenza, chiamata “Teoria dell’Anomia”: essa supponeva che la specie umana fosse in realtà costituita da un branco di soggetti sanguinari pronti a scannarsi l’un l’altro e che l’organizzazione sociale fosse stata concepita come  meccanismo indispensabile per imporre regole in grado di contenere questa aggressività; regole senza le quali (in greco Anomia significa “mancanza di leggi”), gli uomini si sarebbero estinti nel giro di poche generazioni a causa della loro tendenza innata all’ eliminazione del proprio simile  e, dunque, all’autoannientamento.

Il “buon selvaggio”

Una teoria sociale di questo tipo, oggi, è vista con repulsiva diffidenza poiché contrasta con quella del “buon selvaggio”, molto in voga tra i pensatori politicamente corretti, secondo cui, invece, l’antropoide originario sarebbe un agnello di mansuetudine, mentre la violenza dipende dal progresso che per misteriosi motivi e con meccanismi altrettanto misteriosi, germoglia in alcuni soggetti, portandoli all’aggressione fisica, fino all’omicidio. In altre parole, il “buon selvaggio” sarebbe la regola, il violento, l’eccezione con ribaltamento totale del concetto di Anomia secondo Durkheim.

Ebbene, per quanto possa sembrare strano, tutti gli studi successivi del secolo scorso sull’origine della violenza non hanno fatto altro che confermare l’attendibilità dell’Anomia, al punto che il “buon selvaggio” possiamo ormai relegarlo tra le cianfrusaglie vintage della psicanalisi salottiera. Del resto, è intuitivo che la violenza sia stata una necessità, agli albori della specie umana, sia per autodifesa che per procacciarsi il cibo (l’uomo poteva essere alternativamente preda e predatore) oltre che, naturalmente, per la procreazione rispetto alla quale è piuttosto difficile supporre congiunzioni carnali “consensuali”.

I “buoni” e i “cattivi”

Facciamo un esempio banale: tra tutti coloro che, adesso, stanno leggendo queste righe e che supponiamo persone evolute e ragionevoli, c’è qualcuno, anche una sola persona, che non abbia mai discusso o litigato con un proprio simile? Una che non abbia pensato “io a quello gli farei volentieri un occhio nero”? O, addirittura, qualcuno che almeno una volta nella vita, non sia stato sfiorato da un’idea del tipo “io quello, lo vorrei vedere morto”?

Se, come penso, la risposta è negativa, questo significa due cose: la prima è che tutti noi abbiamo l’esatta percezione di ciò che è “violento” per averne avuto esperienza diretta o indiretta (ciò che NON ci è del tutto estraneo, in qualche modo ci riguarda): la seconda è che l’attuale sanzione sociale nei confronti della violenza dipende esclusivamente dalle modalità della sua estrinsecazione o, per meglio dire, dal “livello” al quale essa si esprime. I livelli sono tre: quello ideativo, quello verbale e quello comportamentale: se io mi limito a pensare “quello lo ammazzerei”, metto in atto una prima contromisura rispetto all’odio istintuale, una valvola di sicurezza che, attraverso la rappresentazione mentale dell’atto, si interpone alla sua realizzazione. Un celebre psichiatra americano sosteneva che i “buoni” si limitano a pensare ciò che i “cattivi” fanno; inoltre, gli specialisti sanno che i predatori sessuali sono, per lo più, incapaci di elaborare fantasie sessuali e che, per questo, le devono agire.

In genere, se lo stimolo originario è troppo forte, la semplice rappresentazione mentale può essere insufficiente a contenerne l’energia che si scarica, così, ad un secondo livello, tramite l’apparato motorio vocale, con insulti e provocazioni che “mimano” l’atto aggressivo attraverso la sua semplice “messa in scena” rituale.

Al terzo livello, si può venire, come usiamo dire, “alle mani”, cioè allo scontro fisico diretto.

In casi particolari, come ad es. taluni disturbi psichici, i primi due livelli possono essere bypassati e il soggetto passa direttamente all’aggressione fisica, spesso ancor prima di riuscire a rappresentarsela mentalmente.

I livelli descritti sono per fortuna e nella maggioranza dei casi, efficaci a contenere la violenza in un recinto accettabile, col contributo, naturalmente, delle regole sociali che, secondo Durkheim, intervengono sanzionando, a partire dal secondo livello, le singole manifestazioni verbali, e in modo più pesante quelle che comportino lesioni fisiche.

“incapaci di far del male ad una mosca”

Ora ci chiediamo: è possibile, in qualche modo, prevedere il modello di reazione di ogni singolo soggetto ad eventuali provocazioni frustranti? In una certa misura, sì: familiarità, conoscenza, empatia e tolleranza possono aiutare, ma una cosa dobbiamo tenere presente, e devono farlo soprattutto psichiatri, psicologi e addetti alla salute pubblica, e cioè che non esistono soggetti “incapaci di far del male ad una mosca”. Ognuno di noi ha la propria soglia personale di scatenamento e non è detto che ne sia cosciente, cioè che conosca abbastanza sé stesso per sapere fino a che punto può tollerare situazioni frustranti in modo socialmente accettabile.

Ho coniato provocatoriamente, ma non poi tanto, il termine “soglia omicida” perché sono convinto che ciascuno di noi abbia quella sua personale. Nei futuri assassini, essa è bassa, naturalmente, mentre la grande maggioranza delle persone sane ce l’ha abbastanza elevata da rendere molto improbabile che possa essere raggiunta nel corso della vita.

Quindi è inutile arrampicarsi sul pero per poi doverne cadere con espressioni del tipo “lo conosco da una vita e mai avrei pensato fosse capace di una cosa del genere”, come spesso si sente dire in TV: noi non conosciamo proprio niente delle persone, persino noi operatori. Possiamo solo cercare di  decifrare in modo tempestivo eventi, comportamenti e singoli episodi, se riusciamo a venirne a conoscenza ad es., durante un colloquio psichiatrico; possiamo cioè  identificare eventuali segnali premonitori riguardo al livello della “soglia omicida” e ce ne sono, credetemi; ma mentre un omicidio portato a compimento scatena stampa e comunicazione  anche contro gli operatori psichiatrici, di un omicidio “evitato”  non si saprà mai niente, semplicemente perché NON è avvenuto e, quindi, nessuno potrà mai riconoscerne il merito a coloro che si siano  presi cura del futuro, mancato assassino.

I primi ad aver paura

Perciò, ogni volta che lamentiamo la perdita ingiusta di una persona assassinata, inondiamo pure i social media di ricordi accorati, facciamo volare i palloncini e gli applausi al funerale, organizziamo fiaccolate notturne, ma, per piacere, riflettiamo anche su quello che i pubblici servizi psichiatrici avrebbero potuto, eventualmente, fare e non hanno fatto: parlare al telefono con un utente sconosciuto, ad esempio, per sapere cosa sta succedendo, oppure assicurargli un colloquio tempestivo in casi presunti gravi, o magari evitare risposte viscide se non addirittura infastidite a richieste  che vengono bocciate senza essere neppure superficialmente esaminate  nel merito.

E, infine, per favore, basta con le formulette del tipo “non è di nostra competenza” oppure “è il paziente che deve venire al Servizio, non facciamo visite domiciliari”: sono risposte in malafede ed evasive, degne di un burocrate di infimo ordine; inoltre, a voler essere maligni, sono spesso dettate dalla paura: paura del paziente aggressivo o pericoloso e, in generale, paura dell’ignoto, dato che, con la chiusura dei Manicomi, l’attuale formazione psichiatrica evita, in genere, il contatto sistematico con pazienti alienati gravissimi. Eppure i primi ad aver paura sono proprio loro, i malati di mente  stritolati dal  meccanismo perverso in base al quale gli operatori psichiatrici temono soprattutto le persone che, a causa delle tragiche condizioni in cui versano, avrebbero più bisogno di assistenza e che, invece, finiscono con l’essere preferibilmente evitate;  questo, spesso, è il preludio all’ abbandono terapeutico,  non più  semplice disservizio, ma anche ipotetico reato che oscilla tra la fattispecie dell’abbandono di incapace a l’autentica omissione di soccorso e di atti d’ufficio: al confronto,  il vecchio internamento in Ospedale Psichiatrico garantito dall’ombrello giuridico di una sentenza rappresentava un’ ancora di salvezza e la speranza estrema di una vita dignitosa per soggetti totalmente privi di risorse individuali e sociali.

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Giuseppe Magnarapa
Giuseppe Magnarapa
Neuropsichiatra, è autore di numerosi saggi sul comportamento violento di tipo psicopatologico e criminale. Ha anche scritto romanzi di genere horror, poliziesco, psico-thriller e fantapolitico.

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