Per indire un congresso straordinario, secondo le norme dell’attuale statuto del Pd, la Schlein deve dimettersi e la palla passerebbe al presidente, cioè Bonaccini, che da reggente dovrebbe gestire l’iter congressuale. Su questo lo statuto del partito è chiaro, non ammette deroghe. Una tragitto che potrebbe andare avanti per sei mesi. Ecco perché questa ipotesi già non esiste più. Di fronte a queste cose viene una certa nostalgia per le vecchie classi dirigente come Berlinguer, Natta, D’Alema o Veltroni per parlare dei comunisti, o dall’altra come De Mita o Prodi per guardare sul versante democristiano, non avrebbe mai commesso un simile errore da matita rossa». Eh sì perché la prima reazione di Elly Schlein alla spaccatura che c’è stata nella delegazione del Pd al Parlamento di Strasburgo sulla risoluzione di «ReArm Eu» (metà a favore e metà si sono astenuti) è stata quella di un congresso di redde rationem.
Un’idea maturata su consiglio della premiata coppia Sandro Ruotolo-Marco Furfaro per bacchettare sulla dita i riformisti ribelli e riportarli all’obbedienza e alla disciplina. Solo che l’anima ortodossa dello «schleinismo» non è avvezza a leggere statuti o a districarsi tra le regole di un partito. Magari era ancora convinta che nel Partito democratico fosse in auge il centralismo democratico di una volta se non addirittura un’infarinatura di stalinismo cosa impossibile in una forza nata dal matrimonio tra ex-Dc ed ex-Pci. Così nel giro di 24 ore, alla vigilia della manifestazione di piazza del Popolo sull’Europa, tutti si sono resi conto che l’avevano fatta troppo facile, oppure che la stavano facendo troppo grossa, ed è partito il fatidico contrordine compagni.