L’intervista. Intelligenza artificiale, Padre Benanti: “La sfida è mantenere umana la parola. L’IA uno strumento di scontro geopolitico”

Una vita trascorsa tra San Francesco ed il computer, facendosi largo tra gli algoritmi per scoprire cosa ne resta dell’umano. Per lui il progresso tecnologico è realmente conciliabile con uno sviluppo umano, purché ad illuminare la strada del primo ci sia l’etica. È persino giunto a coniare un neologismo per identificare la questione di come conciliare valori numerici a valori etici: l’algoretica.
Oggi difende il diritto d’autore e il lavoro giornalistico per conto del Governo, che lo ha voluto alla guida della Commissione sull’intelligenza artificiale per l’informazione. È membro del New Artificial Intelligence Board, istituito presso l’ONU, ed è consigliere del Santo Padre a proposito di novità tecnologiche. Già ospite dei ragazzi di Gioventù Nazionale alla quarta edizione di “FENIX” in giugno scorso, Padre Paolo Benanti è stato intercettato dalla Voce del Patriota per alcune considerazioni.

Padre Paolo, a poco meno di un mese dalla sua nomina, come sente che sta procedendo il lavoro della Commissione da Lei guidata?

Bene. Tengo, però, a precisare che si tratta di un lavoro collegiale, già cominciato precedentemente da altri colleghi. Si tratta comunque di una sfida affascinante, poiché trattiamo le applicazioni di una tecnologia davvero potente e che possiede tante potenzialità, ma che potrebbe cambiare radicalmente, non è detto in meglio, un settore vitale come quello del giornalismo. Mi piace pensare al giornalismo con il sottotitolo del Washington Post, “la democrazia muore nell’oscurità”. Quindi c’è un ruolo fondamentale in questa professione e capirla nell’ottica delle sfide che stiamo attraversando cruciale.

Quali sono gli obiettivi che vi siete posti?

Non essendo un ruolo di guida politica, bensì di coordinamento, a servizio di quello che emerge dalle audizioni, l’obiettivo primario è quello di valorizzare veramente le grandi competenze che si trovano all’interno della Commissione e valorizzarle alla luce di ciò che emerge dalle audizioni stesse, provando a trasformare il contenuto audito in spunti di autentica riflessione per il bene della professione giornalistica, di un comparto industriale e di un paese intero. Ottenere questo risultato significherebbe incrementare la capacità dello Stato, della comunità italiana, del Paese di poter nutrirsi di quella che è l’informazione.

Ma in che modo l’intelligenza artificiale può minacciare l’informazione ed il lavoro giornalistico?

Dipende dalla loro stessa natura. Quando nella California degli anni ‘70 è stata introdotta una macchina che autonomamente poteva raccogliere i pomodori, senz’altro c’è stata una rivoluzione perché raccogliere i pomodori era diventato più facile e il loro costo si era ridotto a due dollari alla tonnellata. Tuttavia, mentre nel 1970 circa c’erano 3200 aziende di pomodori, dopo l’introduzione della macchina, avvenuta nel 1975, le aziende in California sono scese a circa 200. L’innovazione determinata dalla macchina costava 175.000 dollari dell’epoca, vale a dire mezzo milione di dollari di oggi, in pochi potevano permettersela.
Quando c’è un processo innovativo rischiamo che ci sia una contrazione del mercato, cioè che tutta l’offerta che riguarda, ad esempio, la stampa e il giornalismo possa concentrarsi in poche mani, in meno players. Un altro aspetto, invece, è che per far sì che la macchina potesse raccogliere i pomodori, hanno dovuto cercare un tipo di pomodoro maggiormente resistente alla compressione meccanica della macchina. L’innovazione, quindi, ha anche cambiato il tipo di prodotto poiché quel nuovo pomodoro risultava meno saporito.
Se applichiamo questo esempio al mondo dell’informazione, vediamo che l’innovazione portata dalle piattaforme digitali e da questi algoritmi potrebbe portare alla compressione del mercato, quindi a meno player. Potrebbe anche determinare una trasformazione di quello che è il prodotto giornalistico, perché sarà raccolto quello che la macchina lavora meglio. E non è affatto detto che si tratterà dell’articolo di maggiore qualità. Queste sono due grandi sfide che vanno poste davanti al decisore politico perché compia le scelte più opportune sul merito di questa professione.

Però, al tempo stesso, Lei ebbe modo di definire l’intelligenza artificiale come un “quinto potere”, in grado di influenzare l’opinione pubblica. In che modo?

Questa è un’altra sfida. Perché la macchina, da quando è arrivata l’intelligenza generativa, è capace di “raccontare storie”. Questo è il modo che noi abbiamo, come specie, per sopravvivere. Un gatto, o un altro mammifero, conosce cosa gli fa bene da mangiare o cosa gli fa male in forza degli istinti. Noi, se quel fungo è edibile non edibile, lo sappiamo grazie alle storie che ci hanno raccontato persone delle quali avevamo fiducia.
Quindi, se posso usare questo termine un po’ da informatico, “hackerare” questo sistema significa avere in mano la possibilità di “hackerare” un qualcosa di molto importante per la nostra sopravvivenza. Ed è qui che si gioca una partita importantissima, perché la sfida nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa è proprio quella di mantenere la narrazione e la parola umane.

“L’etica è una voce che si appella alla parte più profonda di noi. Non è decisiva, ma suggerisce ed indica il bene comune”. L’etica, come suggerisce questa frase, è un argomento al centro dei suoi studi. Come si lega l’etica all’intelligenza artificiale?

A me piace tantissimo una definizione di etica che diede un vecchio giudice inglese prima di andare in pensione, Lord Moulton, vissuto a cavallo delle due guerre. Lui diceva che l’etica è quello spazio del non esigibile per legge. Per cui, quando sul Titanic che affondava qualcuno ha gridato “prima le donne i bambini!”, ecco che si configura uno spazio dell’etica. Non è imponibile da nessuna legge far andare avanti prima le donne ed i bambini, ma dice molto sulla grandezza e sulla statura di un popolo. Quindi, anzitutto, toccare l’etica e ragionare sull’etica significa ragionare su questa grandezza e su questo spessore. Anche per quanto concerne l’intelligenza artificiale è necessario creare uno spazio non esigibile per legge, uno spazio di tutela per ciò che riteniamo più caro e più prezioso da difendere, tornando all’esempio del Titanic. Applicare l’etica all’intelligenza artificiale è un po’ come applicare dei guardrails lungo le strade. I guardrails non impediscono alle persone di andare da qualche parte, ma di evitare incidenti.

Padre, in un articolo risalente all’ottobre del 2023, spiega come la Cina stia investendo in nuovi regolamenti di sicurezza per impedire ai nuovi modelli di intelligenza artificiale di attingere informazioni da fonti censurate dal regime cinese. Un modo evidente per tenere sotto controllo la sua propaganda. Nel frattempo, è partita anche la sfida agli Stati Uniti per la supremazia su questa tecnologia. L’intelligenza artificiale ha un ruolo anche nella geopolitica?

Tutto il mondo delle intelligenze artificiali ha una radice di pensiero che torna all’origine stessa del mondo dell’informazione: la radice della cibernetica, ovvero lo studio di sistemi che, mediante l’informazione, possono controllare la macchina. Solo che adesso ci siamo resi conto che quando questa informazione non l’applichiamo esclusivamente, per esempio, a dei sensori meccanici, ma l’applichiamo a noi, in parte l’informazione ha anche la capacità di controllare o di orientare quello che è il comportamento umano. Quindi chi possiede l’informazione, la centralizza e la controlla, può avere un controllo granulometrico sulla società, pensiamo alla videosorveglianza di massa, pensiamo alla biometria e pensiamo a tutta una serie di dati di questo tipo. Questo ha un valore anche politico, immenso. Se poi questo diventa la capacità di acquisire dati e di acquisire informazioni su un paese terzo, ecco che diventa geopolitica e diventa un potere di controllo da affare internazionale.

Rispetto al contesto internazionale, come giudica il livello di ricerca in Italia? Siamo competitivi?

C’è qualcosa di molto interessante da sottolineare. Noi abbiamo un sistema universitario che possiede delle eccellenze. I nostri dottorandi, dottorati e tutti coloro che escono dalle nostre università rappresentano veramente un punto di riferimento. Vediamo per esempio ciò che è successo al Professor Gottlob, che da Oxford decide di venire all’università della Calabria, terra che possiede le due colonne, quella simbolica e quella sub simbolica, dell’intelligenza artificiale. L’aspetto curioso è che questi laureati, queste menti che noi in qualche misura aiutiamo a crescere e consegniamo al paese, poi trovano un ecosistema che non è in grado di assorbirli. Questo accade a fronte delle ingenti somme di denaro che Stato e famiglie devono impegnare per permettere ad un giovane di acquisire una formazione e un titolo in queste discipline, come le STEM, fondamentali per l’intelligenza artificiale. Non trovando dove stare, automaticamente, vanno via, rompendo l’anello mancante di una simbolica catena necessaria ad ottimizzare il Paese e renderlo responsivo, capace di produrre innovazione e non solo magari di acquistarla su mercati esteri.

Una curiosità, Padre Paolo. Ma cosa ha spinto un uomo di Chiesa come Lei a diventare un esperto di livello internazionale su questi temi?

Perché in realtà l’interesse nasce da prima. Io frequentavo ingegneria. Il computer era la grande novità della mia generazione, quindi mi incuriosiva tantissimo. Non ho terminato ingegneria perché trovai altro ed ho fatto la scelta di vita che ho fatto. Però questo tema non si è mai sopito, tanto che il mio dottorato l’ho incentrato sull’etica della tecnologia proprio per rileggere quella parte passata e reinterpretarla alla luce di istanze etiche e valoriali.

Papa Francesco ha fatto un passaggio significativo sull’intelligenza artificiale durante lo scambio di auguri per il nuovo anno insieme al corpo diplomatico in Santa Sede. Continua a dare una mano al Santo Padre a conoscere le potenzialità di questa tecnologia?

Si, perché in qualità di accademico di una università Pontificia a volte vengo chiamato per prendere parte ad alcune riflessioni che accadono in Santa Sede, le quali vertono naturalmente su temi più legati all’uomo e su come trasformare intelligenza artificiale in uno strumento che vada a beneficio di tutti. Il Santo Padre è molto attento perché da subito si è visto preoccupato per i più fragili e per gli ultimi, capendo che questo strumento potrebbe essere un qualcosa che moltiplica le disuguaglianze o qualcosa che le appiana. Poterci avvalere di una voce così autorevole, impegnata a ricordare al mondo intero che potrebbe esserci un domani migliore per tutti, è qualcosa di molto importante. Direi che collaborare con lui, è uno degli aspetti che si legano più nel profondo alla mia scelta di vita.

Attorno l’intelligenza artificiale ruotano numerosi dubbi e preoccupazioni. Una reazione tipica quando una nuova tecnologia viene introdotta. Riuscire a trasformare questo progresso in un autentico sviluppo umano, è possibile?

Io direi che fin quando ne parliamo e ci confrontiamo, ci sono speranze. Non parlarne significa aver già perso. Probabilmente dovremo accettare livelli di discussione molto bassi e che non avremmo voluto, ma parlarne significa aprire uno scenario culturale, aprire un dibattito, aprire un processo che a sua volta significa, mi perdoni il parallelo calcistico, essere ancora in partita.

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Andrea Piepoli
Andrea Piepoli
Classe 1996. Nato tra il sole e l’acciaio, cresciuto tra le piazze di Roma. A volte mi piace travestire la realtà da sogno. Con curiosità provo a raccontare e rappresentare la mia generazione.

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