Lo studio: D’Annunzio a Fiume. 

Il Centenario dell’impresa di Fiume ha coinciso purtroppo con la più grave crisi dello Stato italiano dal 1945 ad oggi, quella del coronavirus. Ma raccontando quella storia di circa 100 anni fa, intendo delinearne i caratteri fondamentali, lasciando aperti vari spunti di riflessione. Fiume, oggi Rijeka, è una città portuale posta nell’Adriatico orientale, dove finisce l’Istria e inizia la Dalmazia. È il Quarnaro o Carnaro, come Dante spiegava nel IX Canto dell’Inferno: «Sì come a Pola presso del Quarnaro/ Che Italia chiude e i suoi termini bagna». Dopo essere stata per 400 anni città libera della Corona d’Austria, dal 12 settembre 1919 fino ai primi di gennaio del 1921 fu governata dal poeta Gabriele D’Annunzio. Secondo lo storico G. Parlato la maggioranza della popolazione a Fiume parlava italiano e si riconosceva nella tradizione culturale italiana, perché era stata Venezia a svilupparne le influenze commerciali e industriali. In tutte le città della costa, da Rovigno a Pola, da Fiume a Zara, da Sebenico a Spalato fino a Ragusa, la presenza della Serenissima fu decisiva. Durante la dominazione asburgica l’italiano era la lingua dei commerci. Oltre a essere maggioranza gli italiani erano anche classe dirigente, erano i più colti e i più attivi economicamente.

Questo spiega perché dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli italiani furono oggetto di persecuzione e sterminio. Dal 1848 al 1952 i sindaci della città furono espressione della comunità italiana a significare il peso e il ruolo di quella popolazione. Gli italiani erano soprattutto nella città, mentre la provincia era a maggioranza slava, ma italianizzata. A Fiume non c’era pluralismo religioso, il 90% era cattolico, ma essendo il clero soprattutto croato, gli italiani partecipavano poco alle funzioni religiose. Il potere imperiale austriaco preferiva scegliere preti slavi, considerati più fedeli all’Imperatore. Nel 1910 la maggioranza delle scuole elementari erano italiane e anche la cultura popolare diffusa era quella dell’Italia. Con la città di Fiume D’Annunzio all’inizio c’entrava abbastanza poco. Se ne occupò un po’ prima del 1919 e la frequentò solo nel 1907. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1916 il “Vate” si era arruolato, trasferendosi poi a Venezia, da dove compì imprese sempre più ardite. Durante una ricognizione in idrovolante ebbe un grave incidente, ma non per questo smise di partecipare alle azioni belliche. Tra il 1917 e il 1918 fu protagonista di numerose incursioni sul fronte del Carso.

Con il disfacimento dell’Impero austriaco alla fine della Grande Guerra, Trieste venne annessa all’Italia secondo gli accordi del Patto di Londra, ma Fiume e la Dalmazia ne rimasero escluse. Il 24 aprile del 1919 i rappresentanti italiani Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino abbandonarono polemicamente la Conferenza di Pace di Parigi. D’Annunzio parlò di “vittoria mutilata”, criticando apertamente la politica del governo. La questione riguardava il compenso spettante all’Italia, dopo la vittoria contro gli “Imperi Centrali”. Esso consisteva nella “restituzione” di Trento e Trieste, Gorizia, l’annessione di una parte dell’Istria, la costa dalmata fino a Traù e Spalato escluse. Nel Trattato c’era una singolare mancanza: non si parlava della città di Fiume. Questa dimenticanza non fu il frutto di un rifiuto dei nostri alleati, ma di una scelta del nostro governo di evitare di chiederla, per un calcolo che si rivelerà sbagliato: si riteneva che l’Impero austro-ungarico sarebbe uscito sì ridimensionato dal conflitto mondiale, ma rimanendo abbastanza forte da sostenere uno “Stato cuscinetto”, la Croazia che avrebbe dovuto avere uno sbocco sul mare, Fiume.

Ma l’Italia si trovò a Parigi isolata nelle sue rivendicazioni per la netta opposizione del presidente americano Wilson, il quale accusò gli italiani di pretese contrarie al principio di nazionalità. Lontano da ogni dinamica diplomatica, quindi, l’impresa fiumana fu un coacervo di situazioni e di storie; un evento di volontari e di disertori “controcorrente”. Quella di D’annunzio fu un atto di forza eversiva che contestava le logiche dello Stato liberale e il tradizionale modo di fare politica. “Il poeta soldato” all’indomani della Grande Guerra decise che Fiume doveva essere italiana a tutti i costi. L’impresa fu un’epopea politica ed esistenziale di cui “il Vate” fu protagonista assoluto, con la sua capacità visionaria e creativa. D’Annunzio fu una figura eccezionale del suo tempo: artista, condottiero, militare, romanziere, drammaturgo, incontestato maestro d’eleganza, amatore insaziabile, pioniere dell’aviazione e dell’automobilismo, eroe di guerra, orgoglioso della sua italianità.

A Fiume D’annunzio trovò il modo di mettere in pratica i suoi ideali estetizzanti e la tribuna per la sua eccezionale oratoria. Ma soprattutto ebbe modo di sperimentare una forma di Stato del tutto nuova ed inedita. Un altro aspetto dell’agire dannunziano fu il valore dato alla donna che per la prima volta si vede riconosciuti diritti pari rispetto all’uomo. È in questo contesto che il 12 settembre del 1919 D’Annunzio alla testa di militari ribelli, i “disertori in avanti”, ruppe gli indugi e occupò la città, chiedendo l’annessione all’Italia. Dopo lunghi mesi di infruttuose trattative condotte da emissari del governo di “Cagoia” Nitti sarà il vecchio Giolitti, tornato al governo nel 1920, a sgombrare la città dopo che Fiume, con il Trattato di Rapallo, era stata nominata “città libera”. Fiume diverrà italiana nel 1924. L’epopea riguardava un’area culturale minoritaria, composta da arditi, artisti, futuristi, anarchici, ma anche scontenti, apocalittici e giovani accorsi a Fiume da tutta Italia per un’esperienza irripetibile; essa si collocò a “sinistra” con gli “scalmanati” e a “destra” con i “ragionevoli”, ufficiali monarchici disciplinati, gerarchici, anziani. I primi vennero definiti dall’associazione Yoga, «Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione» ideata da G. Keller e G. Comisso. Tra le due “correnti” D’Annunzio si posizionò nel mezzo, senza alienarsi l’appoggio della maggioranza dei “perbenisti”. Secondo la storica Claudia Salaris Fiume fu «la fucina in cui s’è sperimentata per la prima volta una liturgia della politica di massa. Il recupero del passato come il mito della romanità, i saluti: Eia eia alalà, A noi! I motti: dal rude Me ne frego al più raffinato Ardisco non ordisco, perfino la canzone Giovinezza inventata sul Piave, nonché l’uso della camicia nera e del fez, indossati dagli arditi. E poi il culto dei martiri, la celebrazione degli anniversari, le cerimonie di giuramento, le marce, i discorsi dalla ringhiera del palazzo di governo, con squilli di tromba, in cui il poeta, dialogando con la massa, riusciva a creare un legame mistico con essa».

Tutti elementi, esempi della politica di massa che come ha ricordato il grande storico tedesco G.L. Mosse: «Fu proprio il Vate, e non Mussolini, a padroneggiare, con la tecnica di plasmare e suggestionare la massa». D’annunzio non stimava particolarmente Mussolini, ricambiato dalla diffidenza del “futuro Duce”, e non fu mai intimamente fascista, ma fu un artista anarchico, al di sopra di destra e di sinistra. Fiume fu un evento anticipatrice d’un nuovo ordine politico, un «magma ribollente di stati d’animo, di concezioni della vita, tra idealismo, utopia, anarchia e vitalismo festaiolo, una risposta al malessere d’una generazione che dopo la guerra si sentiva d’essere diversa nell’esistenza e nei rapporti umani e sociali». Già Renzo De Felice aveva analizzato l’opera, utilizzando fonti precise come le testimonianze dei legionari letterati, diari, memorie, biografie di protagonisti come G. Comisso, L. Kochnitzky e L. Toeplitz, ma anche attraverso le riviste della città come La testa di Ferro e Yoga e i contributi artistici di Marinetti. Il quadro che emerge è quello di un gruppo di uomini cosmopoliti, preoccupati d’imprimere all’esperienza una connotazione politica di “sinistra” e “di destra”, punto di partenza per una rivolta generalizzata degli oppressi d’Italia. Accanto a D’Annunzio L. Kochnitzky, politico ebreo e comunista; Henry Furst, statunitense di estrema sinistra; Guido Keller, figura letteraria e bizzarra dell’intero gruppo: nobile aviatore, esteta e uomo d’azione, capace di colpi di mano, imprese piratesche e beffe clamorose, il “lancio del pitale” su Montecitorio, seguace di pratiche igienico-naturistiche, spesso passeggiava nudo in spiaggia, dandista, l’unico a dare del tu a D’Annunzio. Mario Carli: dandy nell’aspetto ma dal carattere prepotente e battagliero, volontario negli arditi, sansepolcrista, favorevole alla collaborazione tra futuristi, arditi, fascisti, combattentisti e socialisti, riformisti sindacalisti, repubblicani, che affermò: «Noi siamo libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubblicani più accesi […], non abbiamo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini e clericali». A. De Ambris, sindacalista rivoluzionario, socialista interventista, oppositore del regime fascista.

E ancora: il sindacalista Giuseppe Giulietti, l’anarchico Erico Malatesta, Bombacci il comunista grande amico di Mussolini, che morrà difendendo la R.S.I nel 1945. Il 24 ottobre 1919 il Vate dichiarò: «Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza»; impresse al governo una forte svolta politica in senso rivoluzionario sia sul piano politico interno, la Carta del Carnaro, sia su quello dell’azione politica diretta, cercando legami con esponenti delle forze rivoluzionarie. D’Annunzio, il capo dei legionari, fu presentato da una certa storiografia radical chic come un pazzo, un istrione, un seminatore di guerra civile, un nemico di ogni legge umana e civile. Chissà come la prenderebbe la benpensante sinistra italiana sapendo che Lenin avrebbe pronunciato queste parole sul Vate: «In Italia c’è un rivoluzionario solo: Gabriele D’Annunzio». Fu infine R. De Felice, massimo storico del revisionismo di sinistra a raccogliere la testimonianza del comunista G. Tuntar sui malumori che il leader bolscevico avrebbe espresso verso i socialisti italiani: «Bisognava sfruttare la situazione creata dall’impresa dannunziana per volgerla ai fini della rivoluzione proletaria italiana».

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