Per scoprire in un quadro organico le relazioni dell’intelligence, i documenti degli inquirenti, la verità politica sulla “mafia nigeriana” in Italia e sui nodi (logici) che collegano l’immigrazione con la sua esplosione nei quartieri della città grandi e piccole?
Bisogna sfogliare il The Washington Post. Non è una boutade ma ciò che è avvenuto pochi giorni fa, svelando – nello specifico – il tasso di rimozione del problema (eccezioni importanti a parte) dal dibattito pubblico nazionale, la malafede degli ultrà immigrazionisti e gli scheletri nell’armadio dei costruttori della post-verità.
Stiamo esagerando? Basta prendere in mano l’edizione digitale del più importante quotidiano della capitale statunitense e, semplicemente, leggere la lunga inchiesta pubblicata il 25 giugno: «Gli investigatori e i funzionari della giustizia sostengono che la “mafia nigeriana” ha capitalizzato mezzo decennio di migrazione storica – spiegano i due corrispondenti -. Uno scenario che fonde criminalità e migranti in un modo che i politici nazionalisti in Europa e oltre hanno a lungo denunciato». Una chiarezza difficile da trovare nei corrispettivi italiani.
Parlando di mafia nigeriana si scopre allora di una penetrazione criminale che procede silenziosa da anni in Italia, favorita – come si legge invece nell’approfondito dossier preparato dal centri studi di Fratelli d’Italia, tra l’altro fonte accreditata per lo stesso WashPost e soggetto attivissimo, fuori e dentro le aule parlamentari, nella denuncia del fenomeno e nelle proposte per contrastarlo – anche dalla politica dei “porti aperti” e amplificata dalla folle introduzione (tutta italiana) della protezione umanitaria. Il risultato? Il 93% dei richiedenti asilo di origine nigeriana presenti in Italia in qualsiasi altra parte del mondo non sarebbero stati accolti.
Con una manovalanza così copiosa e un “turn over” facile con la madre patria non sorprende ciò che si legge ancora nel reportage del quotidiano americano: «Centinaia di pagine di documenti investigativi dimostrano che la mafia nigeriana ha costruito in Italia un hub europeo, contrabbandando cocaina dal Sud America, eroina dall’Asia e trafficando donne per decine di migliaia».
Un fenomeno dai numeri impressionanti (le “cosche nere” spadroneggiano in sette regioni e sono le uniche ad aver stretto un rapporto di co-gestione addirittura con Cosa nostra) eppure sempre minimizzato o relativizzato qui in patria negli ultimi dieci anni: guarda caso la stessa decade legata all’esplosione della crisi migratoria in Italia, coincisa – casualità? – con il rafforzamento delle mafie straniere. Eppure, sempre leggendo i report delle forze di sicurezza, gli stessi profili degli affiliati – con riti che mischiano usanze tribali, vincoli delle confraternite dei campus e mistica mafiosa – corrispondono perfettamente ai tanti campanelli d’allarme lanciati in questi anni dai sovranisti sulla mafia nigeriana se è vero che, come ha spiegato l’investigatore Del Grosso a proposito di importanti operazioni avvenute a Palermo nel 2017, i 14 membri arrestati dell’Eye (i Black Axe, uno dei maggiori “cult” nigeriani in Italia, ndr) con l’accusa di mafia e droga, compreso il sospetto capo siciliano, Osabuohien Ehigiator «sono venuti in Italia “sui barconi” negli ultimi anni».
Parole chiare, fonti primarie, un quadro allarmante: eppure nel nostro Paese quello sulla mafia nigeriana è un dibattito che è emerso a tentoni e con estrema fatica – per usare un eufemismo – sui media ufficiali.
A far lievitare l’attenzione sono solo i casi di cronaca nera, come la terribile morte della giovane Pamela Mastropietro (omicidio che ha aperto – anche grazie alle analisi del professor Alessandro Meluzzi – lo scenario sulle pratiche legate alla comunità criminale nigeriana) o prima ancora le notizie sulla strage camorrista di Castel Volturno, la città delle «due mafie» in guerra, divenuta la capitale italiana dell’appendice nigeriana (da qualche settimana guidata da un sindaco di FdI che ha svolto tutta la campagna elettorale e vinto proprio sul tema del contrasto alle mafie, italiane e straniere). Casi rispetto ai quali è stato impossibile glissare, eppure anche qui non sono mancati i distinguo, le divagazioni “sociologiche” e – ovviamente – l’allarme razzismo sbandierato per relativizzare il quadro, alla luce delle sempreverdi responsabilità “occidentali”.
La rimozione del problema è arrivata a livelli iperbolici nel caso del Pd. Un esempio lo ha dato Gennaro Migliore con vero e proprio capolavoro: capovolgere i termini della questione. Parlando di mafia nigeriana, infatti, l’esponente dem ha utilizzato l’espediente retorico («La criminalità organizzata non ha nazionalità. Noi la contrasteremo sempre, in ogni sua forma») per attaccare chi contrasta l’immigrazione clandestina: «Sempre combatteremo chi dice che immigrazione è criminalità, come sta facendo il Governo 5 Stelle-Lega».
Anche papa Francesco non è sfuggito alla trappola riduzionista quando, come ricorda ancora il The Washington Post, ha spiegato che «non sono stati i nigeriani ad inventare la mafia», quasi a voler indicare un peccato originale dell’Italia rispetto al quale la “penitenza” sarebbe dover fare i conti con un corollario importato.
Ma il vero campione del luogocomunismo, ancora una volta, è stato Roberto Saviano. Incalzato da tempo pubblicamente da Giorgia Meloni («Il guru della lotta alla mafia Roberto Saviano perché non approfondisce il tema della mafia nigeriana? O forse dal suo attico di Manhattan i problemi dell’Italia non si vedono e non se ne è accorto?»), solo qualche settimana fa lo scrittore ha “scoperto” il tema della “quinta mafia”, quella nera.
E come lo ha fatto? Ammettendo, ad esempio, che chi ha lanciato l’allarme in questi anni sui risvolti criminali e gli interessi legati all’immigrazione dalla Nigeria aveva ragione? Al contrario, ovviamente: Saviano – nella sua recensione a un libro che tratta proprio dei Black Axe – non potendo rimuovere più il fenomeno se n’è uscito indicando l’emersione di questa mafia africana come frutto della «marginalizzazione e dell’esclusione dal mercato del lavoro» che rappresentano a suo avviso «le prime cause di affiliazione tanto per gli italiani quanto per gli stranieri». Il solito “frullato” dei fatti con il predicozzo immigrazionista intorno.