New York, Bronx, 17 aprile. Patsy’s Bar.
Un classico giovedì americano, ma nell’aria c’era qualcosa di diverso.
Ero lì, tra spaghetti al sugo, birre ghiacciate e un televisore 55 pollici sintonizzato su Fox News. Al mio tavolo, cinque italoamericani DOC – nomi come Tony, Sal, Carmine – tutti col fiato sospeso mentre scorrevano le immagini da Washington. Giorgia Meloni, la nostra, nella Sala Ovale. Con The Donald.
Quando è apparsa sullo schermo, vestita di bianco e col sorriso da poker player, il bar è esploso.
“Questa è una tosta, bro!” ha urlato Carmine, battendo il pugno sul bancone.
“She’s got balls! Bigger than half of Congress!” gli ha fatto eco Tony.
Dietro di noi, un paio di afroamericani si sono girati con aria curiosa.
“Who’s that?” ha chiesto uno, sorseggiando un Manhattan.
“La Premier italiana, man. She’s like… anti-Biden, anti-woke, all that stuff,” ha risposto Sal con l’orgoglio di chi conosce il sangue.
Un ragazzo ispanico ha sorriso:
“I respect that. No-nonsense type. Wish we had more like her.”
E persino una vecchia gloria irlandese, col cappellino dei Mets e la Guinness in mano, ha annuito:
“Trump and this lady? That’s bad news for Brussels.”
Era come se, in quel piccolo angolo del Bronx, l’Occidente si stesse riunendo, tra una carbonara e una discussione sui confini. E in mezzo a quella bolgia di dialetti e accenti, una cosa era chiara: Meloni non parlava solo a Roma. Parlava anche a noi, da questa parte dell’oceano.
I media volevano il dramma. Hanno avuto diplomazia spietata.
Ve li immaginate, vero? I giornaloni pronti a sbattere in prima pagina il catfight su dazi, tariffe e guerre commerciali. E invece? Niente sangue. Solo classe.
Quando un giornalista ci ha provato a mettere zizzania con le solite storie sulle “ritorsioni europee”, Giorgia ha sorriso. Poi ha risposto con la freddezza di chi sa il fatto suo:
“Sono sicura che troveremo un accordo.”
Secco. Pulito. Zero isterie, solo pragmatismo.
E mentre i tecnocrati Ue si facevano il segno della croce, lei rilanciava:
“Non parlo a nome dell’Unione, ma sono qui per costruire ponti.”
Altro che torri d’avorio. Qui si parla di strade transatlantiche a quattro corsie.
Il colpo grosso? Un invito a Roma.
Meloni gioca a scacchi mentre gli altri si scannano a Risiko. Ha invitato ufficialmente Trump a Roma. Non per la pizza – o non solo – ma per dare corpo a una nuova visione geopolitica.
“Uniti siamo più forti”, ha detto.
E lo ha detto con il tono di chi non chiede il permesso. Di chi ha capito che l’asse Italia-USA può diventare una bomba atomica (politica) contro l’apatia dell’Occidente.
Trump style: “Ha conquistato l’Europa!”
Il tycoon americano, notoriamente avaro di complimenti, si è lasciato andare:
“Tutti la amano, tutti la rispettano.”
“È diventata una mia amica.”
Mic drop.
Non era una captatio. Era rispetto. Rispetto per chi dice no all’immigrazione selvaggia, no alle follie woke, e sì a una civiltà che ha ancora voglia di combattere.
“Stessi obiettivi,” ha detto Giorgia.
Dal fentanyl alla difesa dell’identità culturale. Altro che greenwashing e cocktail progressisti.
“Make The West Great Again” è una bomba. E lo sanno.
Non è uno slogan da cappellino rosso. È una dichiarazione di guerra. A chi vuole un Occidente molle, anestetizzato, post-identitario.
Meloni non parla di confini. Parla di civiltà.
“Voglio rendere questa civiltà più forte.”
E invita Trump in Italia per sigillare il patto. Patto di fuoco.
Spoiler: ai globalisti è venuto il mal di pancia.
Il tentativo di sabotaggio? Fallito male.
Un reporter ha provato la carta della provocazione:
“Trump ha dato dei parassiti agli europei.”
Risposta? One-two da KO.
Meloni:
“Non l’ha mai detto.”
Trump:
“Parassiti? Non so di cosa parli.”
Fine. Game over. Fake news asfaltata in diretta. Applausi.
Immigrazione: l’Europa cambia faccia. Con noi.
Trump ha lanciato la stoccata:
“L’Europa si è fatta male da sola.”
Ma poi ha guardato Giorgia. E le ha detto quello che conta:
“Vorrei più leader come te.”
E lei, dritta come una spada:
“L’UE ha cambiato musica. Ora parliamo di fermare l’immigrazione illegale.”
Che tradotto significa: l’Italia ha girato la barca. E adesso siamo noi a tenere il timone.
Questo non è un semplice vertice. È l’inizio della rivoluzione.
Meloni e Trump non stanno seguendo il copione. Lo stanno riscrivendo. A penna rossa. E mentre a Bruxelles si mordono le unghie, a Washington si stringe un patto che parla chiaro:
Make. The. West. Great. Again.
Non è un sogno. È una roadmap.
E l’Italia è pronta a guidarla.
P.S.
Ah, quasi dimenticavo. Prima della giornata al Patsy’s, ero tornato a Central Park. Sì, proprio lì dove qualche settimana fa avevo incrociato l’uomo con il cappotto nero. Lo cercavo. Forse per offrirgli un caffè, forse solo per capire se aveva qualcosa da aggiungere a questa storia.
Ma niente. Nessuna traccia.
Solo vento tra i rami e il silenzio degli uccellini.
Chissà… magari anche loro si erano fermati, in ascolto.
Aspettavano di sentire cosa aveva da dire la premier italiana.
Prima di tornare a cantare.