Ok! Che poi sarebbe “Oil Korrect”, versione volutamente errata per dare enfasi all’originario”all correct”, “tutto giusto”. Poco importa se per altri, la più nota e globale espressione di assenso venga dall’abbreviazione del greco “Όλα Καλά” o, per altri ancora, dalla contrazione fonetica del latino “hoc est”. Insomma, “va bene”.
Ma il problema è che non si capisce più niente. La lingua italiana è sempre più prigioniera di acronimi, abbreviazioni, locuzioni allofone, prevalentemente anglocentriche, di cui sembrano essersi stufati non solo i Cruschisti ma anche gli oratori pubblici e i comunicatori sociali. Nelle scorse settimane si era lamentato Draghi dello sfrenato dilagare degli anglismi, da “lockdown” a “smartworking”, da “booster” a “climate change”, da “millenial” a “boomer”.
Il diluvio di inizialismi, sigle e siglette è però ancora più preoccupante. Da ultimo, anche il presidente Mattarella ha manifestato una certa insofferenza. Così è intervenuto all’inaugurazione dell’anno accademico a Siena: «Apro una parentesi, Magnifico Rettore, perché sarebbero utili degli studi per approfondire le conseguenze dell’uso smisurato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione».
Le conseguenze? C’è un nuovo problema cognitivo, un drammatico problema d’incapacità dello Stato di farsi capire dai cittadini. I linguisti avevano lanciato l’allarme da tempo e le stesse istituzioni pubbliche lo avevano in parte già raccolto. Nel 2014 il Consiglio di Stato, a proposito di una misura adottata dal Ministero della Salute, si era espresso senza mezzi termini: «Va rilevato come l’intero provvedimento (…) si caratterizzi per una scrittura assai lontana dai buoni canoni di un periodare piano, comprensibile a prima lettura ed elegante e per un uso assai frequente di acronimi e di espressioni in lingua straniera, il cui ricorrere — secondo le regole della redazione dei testi legislativi — andrebbe vietato».
Eravamo ancora lontani anni luce dal COVID e dalla nuova era dell’acronimo. D’altronde, nessuno si accorge più che proprio la parolina tragica del nostro tempo altro non è che l’abbreviazione di COronaVIrusDisease, la malattia del Coronavirus. E poi ancora DPCM, DAD, PNRR. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato l’abusatissimo leit motiv del governo Conte. La Didattica A Distanza è stato invece l’inevitabile pegno che la next generation – non ce ne voglia l’attuale inquilino di Palazzo Chigi – ha pagato all’epidemia globale. E poi c’è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, l’ambiziosa strategia di rilancio delle economie, finalmente disponibile nel vernacolo di Dante dopo l’iniziale preferenza di media e politici per il dinamico ma meno familiare “Recovery Plan”.
Certo, un capitolo a parte, o forse una tesi dottorale, meriterebbe la parola “resilienza”, sostantivo italiano de facto, mutuato dall’aggettivo latino molto di moda in ambito angloamericano.
L’elenco può continuare a lungo e investire qualsiasi settore della lingua e dello scibile umano: l’economia, l’informatica, le scienze naturali, sociali e umane. E naturalmente la politica, con i suoi partiti, ministeri, testi legislativi e trattati. Le terminologie tecnico-scientifiche sono stracolme di acronimi e abbreviazioni. Alcune sono per altro decisamente utili. Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, ha scritto: «Gli acronimi possono anche essere utili: si pensi al DNA. Quando mai scriveremmo DeoxyriboNucleic Acid? Ormai è una parola intera e molti, più o meno, hanno idea di cosa si tratti. O pensi a Fiat: che aveva dentro la creatività, il futuro… Possono essere perfino belli, talvolta.
Il guaio è che troppo spesso questi acronimi vengono usati apposta per essere indecifrabili». Trilussa gli farebbe eco, a suo modo e con qualche malizia: «Se vôi l’ammirazzione de l’amichi / nun faje capì mai quello che dichi». Ma non bisogna lasciarsi sedurre dalle sirene del populismo, né dare la colpa al solito imperialismo “stars and stripes” o magari a Queen Elizabeth, né rimproverare Shakespeare, Joyce, Chesterton, Hemingway, Faulkner o Pound.
In tempi non sospetti, Tullio De Mauro scriveva: «Parole che comprimono altre, acronimi, sigle ci piovono addosso da tutte le parti. Non è solo americana la mania dei vocaboli sintesi, nemmeno è una mania di scienze semi-forti come la chimica, la linguistica formale o l’informatica».
Gli acronimi hanno una lunga storia e, questo sì, proliferano soprattutto in Nordamerica dove anche i Presidenti sono abitualmente chiamati con le loro iniziali, dal dimenticato FDR, Franklin Delano Roosvelt, al mitico JFK, John Fitzgerald Kennedy.
Simpatiche o antipatiche che siano, se queste letterine minacciano di voler conquistare il pianeta non bisogna piangersi addosso. Anzi, cogliendone il potenziale creativo e rifiutando ogni forma di passatismo linguistico, dobbiamo declinarlo nel senso di un rinnovato e italianissimo amore per il “bello stile”.
Non c’è una cosa che mi disturba di più, cioè che si parli una lingua che non sia italiano. Sell-in, sell-out, ecc… dove in veneto “Xe vero” lo traduciamo “is glass” e viceversa, dove per il popolo il “wellfare “è “l’affare”, dove good morning lo traduciamo “va in mona”. I politicissimi quando parlano sfoggiano paroloni e paroloni in inglese ma vogliono solo dimostrare che loro non sono ignoranti, ma il popolo in cui io mi immedesimo, cosa capisce? Risposta “UN GRANDE CAVOLO”. I politici non sanno parlare e non sanno farsi capire perché non parlano in italiano, quindi a mio avviso sono persone “ignorantissime” e quindi il popolo contrariamente a quello che si pensa, nemmeno li “cagano” e scusate la parola, ma è italiano inconfondibile. Guardando alle leggi sulle armi il casino che ha fatto il legislatore fra grain e grammi ( mi sembra che si scriva cosi). Quindi se un fesso che sa tutto lui mi dovesse parlare con termini inglesi gli rispondo in veneto di Venezia e se non capisce allora in russo, e mi meraviglio molto se non capisce , perchè ha cominciato lui.