A un mese dall’insediamento del governo Draghi la delusione sembra essere la cifra distintiva. Delusione degli italiani, visto che dopo il consenso elevatissimo dei primi giorni, l’esecutivo è crollato al di sotto dei livelli di Conte. Delusione di intellettuali e di organi di opinione che avevano investito in lui e ora scrivono, come Maurizio Belpietro sulla “Verità” di oggi, che “super Mario assomiglia a Giuseppi”.
Delusi non si dicono ancora i partiti di centro destra imbarcatisi nell’impresa: ma il silenzio dei loro ministri e in genere dei loro esponenti, di fronte all’arrembaggio della sinistra, che ora vuole ius soli e tutto il resto, fa capire come il governo Draghi non sia a trazione centro destra, come qualche esponente aveva un po’ azzardatamente avanzato nei primi giorni.
Si rivela perciò assai azzeccata la scelta di Fratelli d’Italia di opporsi all’esecutivo, e non per “lucrare in termini elettorali” ma perché Giorgia Meloni e il gruppo dirigente avevano ben chiaro che il governo Draghi non avrebbe funzionato in ragione di due motivi: la scarsa legittimazione e la composizione eteroclita della maggioranza. La prima, derivante dalla mancata legittimazione elettorale ma soprattuto dall’aver scelto dall’esterno, in tutti i sensi, chi avrebbe guidato il governo.
La seconda perché una maggioranza che da Laura Boldrini va a Matteo Salvini non può che rimanere paralizzata. In fondo, c’è da ricordare che l’unico caso di governo di unità nazionale, quello guidato da Enrico Letta, fini con una bagno di sangue per il Pdl che vi prese parte: una pesante scissione, un tracollo elettorale successivo, mentre quasi tutti i ministri del centro destra che parteciparono a quell’estperienza finirono nel Pd o uscirono di scena. I governi di unità nazionale insomma favoriscono la sinistra che nei fatti riesce a far passare i propri temi.
Per diverse ragioni, non ultima quella che è la vera per cui la montagna Draghi ha partorito il topolino: la persistenza della tecno burocrazia statale, quello che io chiamo il “partito romano” (non nel senso geografico) che rappresenta il vero potere in Italia. Questo partito romano è tendenzialmente impolitico ma oggi e da tempo si è accasato con il Pd: già se n’erano accorti i giallo verdi quando, dovendo procedere a nominare, sceglievano quasi sempre uomini del Pd. Che era all’opposizione, figurarsi ora che è alleato di Lega e Forza Italia.
La tecno burocrazia è quella che però sta frenando l’azione dello stesso Draghi: che si sta accorgendo che un conto è “comandare” all’interno di strutture tecniche come la Bce, un conto in Consiglio dei ministri dove egli non è che un primus inter pares, e con nessuno partito alle spalle. Persino la nomina del suo capo di gabinetto, delicatissima e quanto mai personale, pare sia stata favorita da Enrico Letta, non ancora segretario del Pd. Laddove cozzarono contro muri invalicabili leader come Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, quest’ultimo peraltro legittimato da nette e chiari vittorie elettorali, era difficile che questi crollassero davanti a Mario Draghi. Esistono delle regolarità della politica, come spiegava Gaetano Mosca, che non possono essere mutate neppure dagli individui eccezionali : e per ora, almeno in politica, Draghi non sta dimostrando di avere la stoffa per esserlo.
Che Draghi sia sempre più simile a Giuseppi è un grand atout per l’opposizione, che può cavalcare facilmente questo tema, ma può diventare anche uno svantaggio, perché potrebbe farla adagiare sugli allori e ad attendere di vedere scorrere il cadavere del nemico. Ma in questo caso sarebbe un errore: un’opposizione patriottica o costituzionale non deve essere disfattista e soprattuto ha da essere propositiva, cosa però difficile quando la condotta del governo è melliflua e ha sentore di vaga reminiscenza “andreottiana”.