PIL in crescita. Una valida ragione per lasciare lavorare il Governo Meloni

In un contesto economico internazionale pieno di incognite, non ancora ripresosi del tutto dai quasi tre anni di pandemia e piombato in un tunnel inflattivo dovuto alla guerra in Ucraina, l’Italia appone il segno “più” alla crescita del proprio Prodotto Interno Lordo.

Le economie normalmente più robuste del Vecchio Continente, in particolare quella francese e quella tedesca, non stanno dando il meglio di loro stesse e negli Stati Uniti si aggira persino lo spettro della recessione, come è stato ammesso anche dall’Amministrazione Biden, ma l’Italia, di solito, fanalino di coda dell’Europa e dell’Occidente, è quella che riporta, insieme alla Spagna, dati migliori del previsto nella Unione europea, e ciò è stato sottolineato dal Commissario Ue Paolo Gentiloni.

L’Istat, che non è certo un organo di propaganda nelle mani del Governo Meloni, rileva una crescita, per il primo trimestre del 2023, dello 0,5 per cento in termini congiunturali e dell’1,8 in termini tendenziali. La ripresa di inizio anno prospetta un tasso di crescita acquisito per il 2023 stimato allo 0,8 per cento. Non si tratta di numeri, per così dire, da tigre economica, ma se pensiamo da dove veniamo, non possiamo che attribuire enorme importanza a questo aumento percentuale del Pil italiano.

La nostra Nazione è stata fra le più colpite dalla crisi economica globale esplosa nel 2008, e una delle ultime a rialzare un poco la testa, anche per carenze tutte sue. Il Pil tricolore è stato per lunghi periodi contrassegnato da una crescita inesistente, ferma allo zero, se non dal drammatico segno “meno”. Di fronte al Covid-19, l’Italia, quella di Giuseppe Conte, Roberto Speranza, e in buona parte, anche di Mario Draghi, sbagliando tragicamente e arrecando danni enormi, ha costretto alla chiusura, più di tutti gli altri Paesi occidentali, le proprie attività economiche e commerciali.

Per molte imprese, purtroppo, la “temporanea” chiusura causa Covid è diventata poi definitiva. È sopraggiunta l’aggressione russa all’Ucraina che ha fatto schizzare ai massimi i prezzi delle materie prime energetiche, generando di conseguenza una inflazione diffusa. Che il Prodotto Interno Lordo italiano, dopo gli ultimi difficili anni e un presente non meno complicato, torni a crescere e a mostrare una nuova vitalità, è estremamente significativo.

Ciò è merito delle imprese, di chi vi lavora ad ogni livello e di tutti i produttori di ricchezza, non a caso elogiati e tenuti in considerazione dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E i dati confortanti della crescita economica di inizio anno indicano come questo Governo, nonostante si sia insediato durante una congiuntura economica più che sfavorevole, si stia muovendo nella direzione giusta e riesca a produrre dei risultati convincenti. Quindi, appare sensato, soprattutto da un punto di vista pratico, lontano perciò da fideismi e facili tifoserie, lasciare lavorare il Governo Meloni per l’intera legislatura.

In tempi ragionevoli questo esecutivo può davvero cambiare l’Italia, liberandola da quelle incrostazioni causate da guasti mai risolti appieno dalla classe politica. Chi guida oggi la Nazione ha le carte in regola, le capacità e le potenzialità per dare alla Penisola un nuovo inizio. Che cosa significa, in tempi ragionevoli? In un Paese come l’Italia, abituato a cambiare un po’ troppo spesso i governi e a rimandare di continuo tante questioni, non si può fare la rivoluzione, per dire, da qui a ferragosto, ma, tenendo presente un orizzonte di metà legislatura o anche qualcosa di meno, gli italiani possono già aspettarsi una serie di novità incisive e finalmente percepibili. Il Governo si è mosso fin da subito nell’ottica del superamento dello status quo e delle rendite di posizione della politica.

Qualcosa lo stiamo già vedendo e molto altro giungerà in seguito. È ormai cosa certa e approvata un primo e promettente abbassamento delle tasse in busta paga, cosa che in Italia non avveniva da decenni.

Nella giornata del Primo maggio, mentre la sinistra era impegnata in concertini e concertoni, la destra al Governo ha varato tramite il Consiglio dei ministri un taglio di 7 punti del cuneo fiscale in busta paga, che assicurerà in media 100 euro in più al mese ai lavoratori.

Si sta lavorando affinché questa sforbiciata al cuneo fiscale divenga strutturale, ovvero definitiva e non riguardante soltanto alcuni mesi. Il CdM del Primo maggio ha anche ribadito il progressivo addio al Reddito di cittadinanza, riaffermando la concezione di uno Stato sociale che non dimentica chi ha davvero bisogno, magari perché impossibilitato a lavorare a causa di gravi problemi di salute o di sopraggiunti limiti di età, ma che non intende nel frattempo distribuire soldi a pioggia in modo scriteriato e incontrollato, con il rischio di favorire i furbi e non gli ultimi della società.

Come ha detto la premier Giorgia Meloni, commentando i dati positivi del Pil, il Governo tiene e terrà sempre in grande considerazione i produttori di ricchezza, ossia chi fa impresa e chi vi lavora in qualità di dipendente. Tale approccio può essere solo della destra perché la sinistra, lo sappiamo da più di mezzo secolo, ritiene qualsiasi titolare di Partita Iva, senza neppure fare troppe distinzioni, per esempio, fra una piccola impresa familiare e una multinazionale, come un riccastro da spolpare a suon di tasse. E di fatto non è neanche tenera, la sinistra, con i lavoratori dipendenti, visto che inorridisce di fronte ad un minore carico fiscale in busta paga.

Il leader della Cgil Maurizio Landini e la segretaria Pd Elly Schlein hanno bocciato entrambi e in toto il Decreto Lavoro approvato il Primo maggio dal Consiglio dei ministri. Il compianto Indro Montanelli diceva: “La sinistra ama talmente i poveri che ogni volta in cui va al potere li aumenta di numero“.

Oltre al graduale, ma strutturale alleggerimento della pressione fiscale, c’è un altro compito che solo la destra può fare, e vale a dire il taglio dei tanti lacci e lacciuoli burocratici che da sempre condizionano e limitano l’Italia, economicamente e socialmente. Non è possibile aspettarsi lotte anti-burocratiche dalla sinistra, che ha tratto profitto a lungo da uno Stato, non sociale, bensì assistenziale e pachidermico, in termini di voti, clientelismi e rendite di posizione. Anche a tal proposito, il Governo Meloni ha già iniziato un percorso con la riforma del codice degli appalti.

È imperativo semplificare le regole a tutti i livelli amministrativi, da Roma agli Enti locali, e non è sufficiente digitalizzare l’uso dei servizi pubblici. Siamo nell’era digitale ed occorre adeguarsi, ma le difficoltà spesso sono state solo trasferite dalle scartoffie al computer. Con poche e chiare norme, tanto per fare esempi contingenti, i soldi del Pnrr potrebbero essere spesi meglio e con maggiore rapidità, e le grandi opere pubbliche, a cominciare dal Ponte sullo Stretto di Messina, incontrerebbero meno ostacoli.

Uno Stato che risolve i problemi dei cittadini e non contribuisce a complicarli, spende meno denaro pubblico e aiuta la crescita economica.

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

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