La crescita economica dell’Italia, che da quando la pandemia è terminata lascia indietro i suoi diretti competitors comunitari, sta a significare due cose: primo, che prima i governi non sono stati capaci di prevedere un piano di incremento del Pil sufficiente; secondo, che ora l’Italia è tornata competitiva nei mercati finanziari, recuperando il passo di un’Italia che ancora non aveva conosciuto il Covid-19, la crisi dell’Euro e il crac di Lehman Brothers. Lo si capisce chiaramente dal Rapporto annuale pubblicato dall’Istat sullo stato di salute della Nazione: l’Italia ha ricolmato il gap creatosi dalla crisi del 2008. E anche questo può voler dire tante cose: che l’Italia, ad esempio, è riuscita finalmente a raggiungere i livelli di crescita e sviluppo conosciuti prima dello scoppio di una crisi i cui strascichi si sono fatti sentire fino ad ora, ma il fatto che sia avvenuto soltanto adesso dovrebbe far accendere una spia di emergenza. La Spagna ha superato i livelli pre-Lehman Brothers nel 2017, la Francia e la Germania lo hanno fatto addirittura nel 2011.
L’Italia cresce più di Francia e Germania
Tuttavia, al pesante ritardo accumulato da una classe dirigente, che ha governato per dieci anni, molto, troppo legata al concetto di austerity, si possono aggiungere buone notizie che fanno ben sperare la nostra Nazione e che mettono a tacere gufi e minimizzatori: in primis, la notizia in sé che l’Italia ha superato i livelli del 2008 è ottima, e il fatto che anche questo risultato sia stato conseguito dal Governo Meloni, con 12 anni di ritardo rispetto ai competitors, la dice lunga sul livello di competenza dei precedenti governi. Poi, altri dati che fanno ben sperare riguardano il livello del Pil italiano negli ultimi anni: tra le quattro maggiori potenze europee, l’Italia ha avuto il balzo più alto tra il 2019 e il 2023. Sul finire dello scorso anno, infatti, il Pil italiano, rispetto allo stesso periodo di riferimento (ultimo trimestre) del 2019, era cresciuto del 4,2%. Quello spagnolo del 2,9%, quello francese dell’1,9%, quello tedesco soltanto dello 0,1%. E questo successo malgrado la pesante inflazione causata dallo scoppio della pandemia e dal ritorno della guerra in Europa, che si è fatta sentire sui redditi già bassi per via di una Banca Centrale Europea ancora oggi restia ad abbassare i tassi di policy e di conseguenza il costo della vita. Buone nuove sono arrivate anche dalla Commissione europea, che ha rivisto al rialzo la crescita italiana dello scorso anno con un ottimo +0,9%, ha riconfermato lo stesso livello per il 2024 e ha lasciato stabile la previsione per il 2025.
Debito pubblico? È colpa del Superbonus
Cos’è allora che fa preoccupare tanto il governo? La crescita c’è, il lavoro pure, la precarietà cala e il potere d’acquisto viene protetto dalle manovre finanziarie del taglio del cuneo fiscale e contributivo e dell’accorpamento degli scaglioni Irpef. E menomale! Perché più di tutto preoccupa il debito pubblico, soprattutto in relazione alle nuove clausole del Patto di Stabilità e Crescita. Il rapporto debito-Pil salirà, così è previsto, al 141,7%: una conseguenza inevitabile degli effetti del Superbonus, dei maggiori oneri per interessi e del suo impatto ritardato sui conti pubblici. “Sul debito, purtroppo, gravano gli effetti negativi del Superbonus”: questa la confessione del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti. Anche Paolo Gentiloni, ex premier e ora commissario europeo, non ha riservato parole positive per la misura grillina: “Siamo di fronte – ha detto – a una misura che certamente avrà avuto anche degli effetti positivi ma che, essendo andata fuori controllo, è diventata un elemento pericoloso. Il Governo fa bene a nostro parere a porvi rimedio”. Parole di speranza provengono dal ministro Giorgetti: “D’altra parte – ha spiegato – i dati europei sul rapporto debito-Pil non incorporano gli effetti dei recentissimi provvedimento che avranno sui conti”.