Che l’Italia non sia un paese per giovani lo capisce chiunque da quel dì. La crisi pandemica ha confermato le tendenze statistiche che investono i principali ambiti di esistenza delle nuove generazioni, a cominciare da scuola, università e lavoro.
La “fuga di cervelli” non sembra aver risentito delle restrizioni degli ultimi due anni. Secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti nel suo “Referto sul sistema universitario 2021”, negli ultimi otto anni i trasferimenti all’estero per lavoro sono aumentati del 41,8%. Anche i dati Istat non sono incoraggianti: nel 2018 sono partiti 117 mila italiani di cui 30 mila laureati. Rispetto al decennio precedente il numero dei laureati espatriati è cresciuto notevolmente con un +10% tra le donne e un +7% tra gli uomini.
Nel 2019 i ragazzi della fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni sono risultati in possesso di un diploma di laurea, il 34% delle donne e il 22% degli uomini, ma con valori ancora inferiori alla media Ocse del 51% per le prime e del 39% per i secondi. Burocrazia, tasse e la mancanza di un immediato sbocco professionale – solo il 68% dei laureati italiani ha un lavoro contro la media Ocse dell’85% – hanno contribuito a consolidare questo ritardo.
Nel Referto 2021 la Corte dei Conti ha inoltre misurato l’offerta formativa di 98 atenei di cui 67 statali e 31 non statali, rilevando una profonda differenza tra le università del Nord e quelle del Sud. Nell’ambito della ricerca scientifica, gli investimenti pubblici sono al di sotto della media europea, così come eccessiva è la complessità sul fronte della programmazione e dell’esecuzione, sui programmi di istruzione e formazione professionale. Se i percorsi di studio offrono tutti un ampio spettro di conoscenze teoriche, la mancanza di laureati in settori ad alta specializzazione tecnica – le c.d. discipline “STEM” (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) – incide negativamente sul tasso di occupazione.
Molti giovani fuggono all’estero allettati da un mercato del lavoro più dinamico e da retribuzioni migliori, anche per dare sollievo alle famiglie che hanno portato a lungo il peso delle tasse universitarie: uno studio di Confindustria ha stimato che la spesa media di ogni famiglia italiana per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni è pari a circa 165 mila euro di contro a una spesa media di 100 mila euro in scuola e università da parte dello Stato. Secondo la Corte dei Conti, il mancato accesso o l’abbandono dell’istruzione universitaria dei giovani provenienti da famiglie a basso reddito è dovuto «oltre che a fattori culturali e sociali, al fatto che la spesa per gli studi terziari, caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate rispetto a molti altri Paesi europei, grava quasi per intero sulle famiglie, vista la carenza delle forme di esonero dalle tasse o di prestiti o, comunque, di aiuto economico per gli studenti meritevoli meno abbienti». Se alle tasse e alle limitate prospettive occupazionali si aggiunge la miseria salariale che in Italia attende neolaureati e neodiplomati di ogni età, il cerchio si chiude.
Nel Belpaese, il salario medio annuale è diminuito del 3% in 30 anni, mentre, dal 1990 al 2020, il salario è cresciuto del 34% in Germania e del 31% in Francia. Perfino in Grecia e Spagna i salari sono saliti, del 30 e del 6%, rispettivamente. E se la pandemia ha tolto qualcosa un po’ a tutti, i salari italiani scendono sempre più degli altri: del 6% contro il 3% di quelli francesi e spagnoli. Insomma, numeri alla mano, chiunque fa le valigie e a cerca fortuna altrove.
Sul versante scuola, le cose non vanno meglio. La scuola italiana è rimasta ferma ai suoi mali atavici: precariato, edilizia fatiscente e dispersione scolastica. La “next generation” soffre gli handicap di un sistema educativo privo di efficienza e, ancor più, di una visione politica.
Come è noto, il governo Draghi investirà 17 miliardi di euro nell’istruzione, 9 nell’università e 8 nella scuola, attraverso i fondi del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnnr). Entro il 2022 saranno realizzate “sei riforme” e pubblicati i bandi per dare tre miliardi ai nidi, in aggiunta ai 700 milioni già stanziati e agli 800 milioni per la costruzione di nuove scuole. Si finanzieranno l’“estensione del tempo pieno” e un “piano per la riduzione dei divari territoriali nella dispersione scolastica”. Il 40% dei fondi stanziati dal Pnrr saranno spesi al Sud. Il 40% di queste risorse sarà “riservata alle donne”.
Non mancano però obiezioni e dubbi: dagli interventi previsti nell’edilizia scolastica, alla capacità di accesso e utilizzo dei fondi strutturali europei, soprattutto da parte dei territori più deboli. Il 40% dei fondi destinati alle regioni meridionali potrebbero infatti tornare a Bruxelles se non si prevedono delle misure di affiancamento per l’acquisizione delle necessarie competenze progettuali. Il Pnrr è infatti adottato secondo la logica del “management per obiettivi” che vincola i fondi a una tempistica molto rigida. Nel caso in cui il governo e gli enti locali non la rispetteranno la Commissione Ue interromperà i finanziamenti.
Chi vivrà vedrà. Ma intanto in Italia si continua a parlare solo di pensioni, dimenticando l’immane sacrificio richiesto ai giovani negli ultimi due anni di emergenza sanitaria. Urge una svolta culturale che riporti istruzione, scuola, università e ricerca al centro dell’agenda politica e del dibattito pubblico.