Sanremo è ostaggio dell’ideologia. Liberiamolo con Bonolis

Esattamente, in quale legge è scritto che Sanremo – il Festival della Canzone Italiana – debba essere un carrozzone ideologico, un circo del politicamente corretto, costruito per piacere a una minoranza rumorosa, ma lontanissimo dalla realtà della maggioranza degli italiani? Certo, mi rendo conto che tra le notizie riguardanti i conflitti o i soprusi dell’Unione Europea, questo possa suonare come il classico argomento da ombrellone, ma si tratta di una questione da non sottovalutare, poiché il vero tema non è il Festival, ma l’inaccettabile operazione di ingegneria sociale per cui viene utilizzato.

Con Amadeus prima e Carlo Conti adesso, il Festival ha smarrito la sua anima: non è più musica, ma propaganda travestita da spettacolo, finanziata con i soldi dei cittadini attraverso il canone Rai, che serve solo a promuovere modelli scollegati dalla vita vera. Non si premia il talento, non si racconta la Nazione, si osanna la trasgressione fine a se stessa, si corteggia il conformismo globale woke, si impongono messaggi che la gente non ha mai chiesto.

Ritengo che Paolo Bonolis – che Sanremo lo ha già rivoluzionato due volte – sia l’unico che possa riportarlo a casa e ridargli dignità. In primis perché si tratta di un professionista che non ha mai avuto paura di dire ciò che pensa, non si è mai piegato alle logiche dei salotti e ha sempre difeso libertà d’opinione e meritocrazia.

In un’intervista a Open raccontò che «Povia lo portai a Sanremo, due volte. Lo riporterei se avesse un brano forte, non mi sono mai chiesto per chi vota un cantante». E ancora, sempre riguardo a Povia, nel podcast Doppio Passo, ha ricordato che «creò parecchie polemiche ma il brano (Luca era gay, Ndr) era molto bello. Siccome ha idee particolarmente radicate in un certo senso, è stato escluso dalle attenzioni delle case discografiche e delle trasmissioni televisive, cosa che non riesco assolutamente a comprendere».

Parole che inchiodano il sistema che, come lo stesso Povia ci ha raccontato alcuni giorni fa, è un circuito chiuso e totalmente autoreferenziale, che ha letteralmente sostituito fior di artisti con personaggi che Fiorello non avrebbe fatto cantare nemmeno al karaoke.

Oggi serve un cambio radicale: riportare la musica al centro, restituire valore al talento, riaccendere l’orgoglio di essere italiani. Non molto tempo fa Giorgia Meloni si domandò come fosse «possibile che un partito come Fratelli d’Italia, stimato al 27%, non abbia nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo». La risposta è semplice: in Italia esiste un’egemonia culturale che ha trasformato la cultura in una proprietà privata della sinistra.

Una sinistra che decide chi può parlare, chi può lavorare in Rai, chi può esistere. Una sinistra che cancella e che bolla come “TeleMeloni” tutto ciò che non controlla. E allora sì, anche Sanremo è diventato una fogna da spurgare, un’operazione culturale tossica da interrompere.

Perché la cultura, quella vera, è confronto, non imposizione, è pluralismo, non pensiero unico. Inoltre, c’è una verità che i numeri confermano con forza: la tradizione vince. A chi si fa forte dei risultati ottenuti dalle recenti edizioni del Festival, faccio notare due cose: la prima è che sono in gran parte merito di contesto polarizzato e battage pubblicitario, non dei presentatori, come peraltro dimostrano le percentuali da prefisso telefonico racimolate da Amadeus senza tutto quel carrozzone.

La seconda è che campagne pubblicitarie che hanno “osato” celebrare valori semplici, come quella di American Eagle con Sidney Sweeney di cui abbiamo recentemente scritto o quella di Esselunga, sono state un successo straordinario. Perché parlano al cuore del Paese reale, quello che lavora, cresce figli, crede nella famiglia e nella libertà, quello che non vuole sentirsi dire come deve vivere, chi deve amare, cosa deve pensare.

La gente è stanca di sentirsi insultare per la propria normalità, di essere giudicata da chi si crede moralmente superiore. Siamo italiani, cristiani, mamme e papà, e siamo orgogliosi di esserlo. Così come, al tempo stesso, il politicamente corretto – detto in tutta franchezza e con il massimo del tatto possibile – ci ha irrimediabilmente e definitivamente rotto i coglioni.

Ergo, andate pure avanti a cantarvela e suonarvela, ma senza più utilizzare il servizio pubblico per sdoganare e dare popolarità ai vostri “artisti” stonati come campane ma fedeli alla dottrina woke. Se sono bravi e piacciono come dite, fate qualcosa di rivoluzionario: assumetevi il rischio d’impresa.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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