Scafisti povere vittime: la sinistra difende gli indifendibili.

Difendere l’indifendibile. O meglio: gli indifendibili. Che poi sarebbero gli scafisti. È l’ultima prodezza della sinistra di lotta e di divano. Disposta a tutto pur di fare il controcanto alla Meloni. L’obiettivo è mettersi sempre e comunque di traverso (“Saremo un bel problema per questo governo”, diceva non a caso tra le sue prime parole Elly Schlein).

Il risultato di questa fine strategia politica è a dir poco surreale. Sì perché a furia di fare opposizione a prescindere (che poi equivale ad esistere per contrasto) ci si ritrova a sostenere posizioni paradossali. Qual è ad esempio l’idea che gli scafisti siano delle povere vittime che rischiano la morte in mare.

Tra loro ed i disperati che traghettano al di qua del mare non ci sarebbe, dicono, alcuna differenza. Una vulgata mutuata da un dossier di Arci Porco Rosso e Alarm Phone e rilanciata dopo il naufragio di Cutro da Mediterranea Saving Humans. L’assunto da cui prende le mosse il ragionamento è abbastanza eloquente: “Attraversare una frontiera oppure aiutare qualcuno a farlo non può essere considerato un reato”.

Quindi gli scafisti sarebbero dei filantropi? Parrebbe di sì: “Sono quasi sempre a loro volta persone migranti che rischiano la vita nell’attraversamento del mare e che si possono ritrovare alla guida per le ragioni disparate”. Verrebbe da dire che questo non è un buon motivo per assolverli in blocco.

E che semmai spetta ad un giudice valutare caso per caso. Non potevano sottrarsi perché minacciati? Oppure sono dei professionisti e percepiscono compensi sulla pelle dei propri conterranei? E se con la loro condotta causano un disastro? Se qualcuno si fa male o, peggio ancora, muore? Domande che la sinistra – così meticolosa nel chiedere chiarimenti al governo sulla dinamica del naufragio di Cutro – stranamente non si pone. Il suo verdetto tanto lo ha già emesso: è colpa della Meloni. Per il naufragio dello scorso 26 febbraio e per tutti i naufragi che si verificheranno da qui alla fine dei tempi. E l’inasprimento delle pene deciso dall’esecutivo è solo accanimento. “Gli scafisti sono disperati come gli altri, ce lo raccontano i giornali che ci parlano e ne scrivono libri: sono i trafficanti quelli che comandano il commercio di uomini, e i trafficanti restano sempre a terra, al sicuro”, argomenta Concita De Gregorio su Repubblica.

La pensa allo stesso modo la scrittrice Ginevra Bonpiani ospite di Zona Bianca: “Sono dei disgraziati che vengono buttati sulle navi dove corrono gli stessi pericoli dei migranti per quattro soldi”. E ancora il governatore della Puglia Michele Emiliano sostiene: “Lo scafista molto spesso è semplicemente un altro disgraziato costretto a fare questo viaggio chissà per quali ragioni”. Si potrebbe andare avanti ancora a lungo ma non serve. Sono tutte dichiarazioni fotocopia. Dichiarazioni che si pongono in netto contrasto con le testimonianze dei sopravvissuti di Cutro. Loro operano una netta distinzione. Marcano le distanze. Conoscono, per averlo vissuto, il confine che separa vittime e carnefici. “Noi migranti non potevamo neppure telefonare ai soccorsi perché i membri dell’equipaggio erano dotati di un sistema elettronico che bloccava le linee telefoniche. Gli scafisti invece erano dotati di una ricetrasmittente satellitare ma non chiamavano i soccorsi”. È la ricostruzione resa agli inquirenti. E in quel “noi migranti” – che è altro da loro, dagli scafisti – c’è un messaggio chiaro e diretto. Qualcuno però non lo vuole ascoltare.

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