Un sociologo e il suo traduttore nel corso di una ricerca nella Libia post Gheddafi vengono a conoscenza di informazioni che se rese pubbliche potrebbero minare la stabilità del Governo di Accordo Nazionale (GNA ). Presi di mira da tutti i diversi gruppi che in Libia esercitano il potere inizia la fuga dei due ricercatori tra le dune del deserto e i palazzi del potere.
Poteva essere la sinossi di un’altra classica spy story in salsa americana, e terminare con il trionfalismo dei più noti esportatori di democrazia, ma il film Shugaley, diretto da Denis Neimand, racconta i fatti che seguirono la caduta del rais libico da un’altra prospettiva della storia, quella russa. I protagonisti sono infatti i sociologi russi Maxim Shugaley e Samir Seifan realmente inviati in Libia.
Il film, che prende spunto da una storia vera, racconta le diverse anime che più o meno scopertamente compongono il governo retto da Fayez al Sarraj. Fratelli musulmani, turchi, islamisti, tutti detengono una fetta del potere e tutti lotteranno affinché lo stato delle cose non muti e gli eredi del rais non tornino sulla scena politica.
Il film è girato in russo ma gratuitamente disponibile su Youtube in lingua inglese, anche se per atmosfere e ricercatezza degli effetti visivi non sfigurerebbe su piattaforme ben più mainstream. Ciò che impedisce a Shugaley il salto su Netflix e simili è infatti nei contenuti, e attiene alla decostruzione di alcuni miti che riguardano la caduta di Gheddafi ancora ben radicati in Occidente.
Il cinema è il più potente elemento di soft power, ampiamente usato dagli Usa per estendere la propria egemonia sulla vicina Europa e non solo. Dagli anni d’oro di Hollywood, che coincidono non a caso con gli anni del Piano Marshall, gli Usa danno vita a una grandiosa industria del cinema. Tuttavia il prodotto non è settima arte, ma con un pacchetto di valori, sintetizzati nel “sogno americano”, che i Paesi occidentali non hanno mai smesso di acquistare.
In Shugaley la fotografia assume una valenza narrativa attraverso il doppio binomio che lega la luce alla violenza scoperta e l’ombra alle stanze del potere. Il regista separa così i campi aperti e luminosi del deserto, dove avvengono le torture degli islamisti e dove si sostanzia il controllo sul territorio dei gruppi armati, dalle stanze chiuse e buie in cui il potere sigla i suoi accordi sottobanco. Una cesura che segna anche i momenti in cui avviene l’azione e dove non mancano parentesi umoristiche in grado di calibrare la crudezza del racconto.
Tra le dune inondate di sole anche le prigioni dove i protagonisti vengono torturati hanno feritoie che permettono l’entrata di una luce brutale. Il messaggio è chiaro: certa violenza non ha bisogno dell’oscurità per agire.
Con l’esistenza stessa del suo film Neimand mostra che il racconto politico è una somma di numerosi fattori. La cultura e lo spettacolo sono parte di una industria molto più grande che non si esaurisce nelle relazioni diplomatiche e nelle stanze del potere: c’è sempre una verità molto più in luce che spesso è ignorata.
Shugaley è un prodotto godibile e soprattutto radicalmente nuovo nelle intenzioni che fa quello che ogni buon film dovrebbe fare: intrattenere e aprire la mente a un’altra visione delle cose.