“Tutti a sQuola”. Abolizione del tema d’italiano, Pnrr e nuove materie. Il futuro della scuola ostaggio del “politicamente corretto”

Tutti a scuola. Anzi,”tutti a sQuola”, come il titolo della commedia di Pier Francesco Pingitore. Nel film, correva l’anno 1979, il Professor Filippo Bottini, interpretato da un allora ispirato Pippo Franco, sognava di insegnare in una scuola modello “Libro Cuore”, severa, esigente, autenticamente educativa. Ma nella trama avrebbe dovuto fare i conti con l’onda lunga del ‘68: l’assemblearismo, le occupazioni, gli scioperi, il fanatismo femminista e il terrorismo. Travolto dagli eventi, si sarebbe trovato a fare il corriere della droga.

A distanza di quarant’anni, la scuola italiana non sembra essere aver superato i suoi problemi. Se non sono mancati i progressi sociali e tecnologici – ma è ancora grave il divario infrastrutturale con il resto dell’Europa e dei Paesi avanzati –, davvero insopportabile è la palude in cui continua a galleggiare, tra precariato degli insegnanti, dispersione scolastica e crisi d’identità. La fuga dei cervelli, acuita da una università senza risorse e da un mercato del lavoro con livelli salariali tra i peggiori nell’area OCSE, sembra inevitabile. E al contempo s’ingrossano le schiere dei “neet”, quei giovani “not in education, employment or training” che tra i 16 e i 24 anni si autoescludono dal circuito formativo e lavorativo, rinunciando al proprio futuro.

Dicevamo della crisi identitaria della scuola, una crisi innanzi tutto culturale. Ha fatto discutere nelle settimane che hanno preceduto il Natale la proposta presentata dai collettivi studenteschi al ministro dell’Istruzione Bianchi di abolire il tema d’italiano agli esami di maturità.

Da tempo questa particolare prova scolastica è osteggiata da intellettuali, teorie, riforme e sperimentazioni varie. Prima dell’emergenza Covid, all’esame di Stato la prova scritta d’italiano aveva subito alcune importanti “alterazioni”: il tema sic et simpliciter era stato sostituito da tre “tipologie” di prova: “analisi e interpretazione di un testo letterario italiano”; “analisi e produzione di un testo argomentativo”; “riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità”. Partendo dal testo di un autore o da tracce predeterminate, ogni candidato doveva rispondere a una serie di domande di “comprensione e analisi”. Insomma, poco più di un questionario o di un quiz a risposta multipla. Ma il tema è un’altra cosa.

Con i tempi che corrono si parla tanto di “liberticidio”. Ebbene il nuovo negazionismo del tema d’italiano, proposta studentesca e movimento di opinione sempre più diffuso tra famiglie ed “esperti”, porta dritto alla morte del pensiero, della parola, del ragionamento e della loro espressione. Siamo d’accordo con Paola Mastrocola quando scrive su La Stampa che “scrivere un tema è scrivere da soli e liberi. Senza griglie, schemi, istruzioni per l’uso e riassuntini premasticati. Fare un tema è quella particolarissima, e unica, attività che consiste nell’esprimere idee proprie, pensieri propri, sentimenti propri, in uno stile proprio. Esprimere. Bellissimo verbo, che viene dal latino ex-premere, premere per far uscire, estrarre.” Così come ex-igere ed e-ducere, esigere, tirar fuori da sé, educare se stessi e gli altri. Naturalmente nessuno, né la grande tradizione pubblica della scuola italiana, erede della ratio studiorum ecclesiastica, pretende che uno studente diventi uno scrittore. Ma l’uso delle parole, la loro intelligenza concettuale e discorsiva, la loro espressione argomentata e critica, hanno bisogno della libertà del “foglio bianco”, la libertà di una scrittura che si distende da un punto di partenza per arrivare, in un tempo limitato, a una destinazione finale. Un esercizio fondamentale, soprattutto in un mondo dominato dai social e dalla tirannia di stories, tweet e battute spesso insignificanti.

Nella crisi identitaria della scuola c’è poi la fuffa politicamente corretta delle “nuove materie”. Numerose e fantasiose sono state le proposte formulate in questi anni. Si va dal necessario civismo dell’“educazione al clima” alla “cittadinanza digitale”, alla non meglio precisata “ora di intelligenza emotiva” o “empatia”. E ancora, “l’ora del dialetto”, “l’ora in cui parlano solo i ragazzi”, l’intramontabile “ora di educazione sessuale” e l’“ora di religione laica”. Il tutto a spese di materie minori o troppo “conservatrici” come la religione, l’educazione fisica o la musica, secondo un modello educativo che ha funzionato per decenni e ha fatto scuola, è il caso di dirlo, in tutto il mondo.

Volenti o nolenti, la tradizione pedagogica italiana mantiene inalterata la sua validità. I tempi pandemici hanno confermato che una scuola radicata nell’umanesimo delle scienze e della tecnica è garanzia di futuro per le generazioni.

Il “Piano nazionale di ripresa e risposta” ai problemi generati dal Covid 19 prevede degli investimenti decisivi per la scuola italiana. Tra le varie voci, saranno importanti le misure volte alla contrasto dell’abbandono scolastico, all’adeguamento delle infrastrutture e al “potenziamento dei dispositivi didattici”. Ma una scuola che sacrifica sull’altare progressista del politicamente corretto il suo glorioso patrimonio pubblico di cultura, scienza ed educazione non potrà che vanificare ogni sforzo. Nessuna “ripresa” è possibile con una scuola priva di visione politica. Senza un’adeguata risposta all’”emergenza educativa” del nostro tempo le grandi sfide globali che ci attendono, dalla salute alla libertà, dalla sicurezza alla pacifica convivenza tra i popoli, saranno perse.

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