“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Questo il testo dell’articolo 29 della nostra Costituzione.
Ed è proprio a quel naturale che occorre prestare attenzione quando si parla di utero in affitto e di diritti che si pensa ne dovrebbero conseguire.
Perché non c’è nulla di naturale nello stipulare un contratto affinché una donna e il suo stesso corpo vengano sfruttati per nove lunghi mesi. Un contratto che rende lecito strappare letteralmente di mano il bambino a quella stessa donna che lo ha portato in grembo per quasi un anno per poi consegnarlo alla sua nuova famiglia già prevista su carta.
Non è naturale non tutelare i diritti dei bambini, che prevedono tra l’altro che il bambino cresca nella sua condizione ottimale. Negare a priori la presenza di una mamma e di un papà non è solo insensato, ma è anche e soprattutto lesivo nei confronti di un essere vivente che non ha modo di scegliere diversamente. E non si tratta di voler negare il diritto a diventare genitori ad una o più categorie specifiche, perché questo è un desiderio legittimo, ma che non può e non deve sovrastare la tutela e la protezione nei confronti del minore.
La tecnica dell’utero in affitto, anche nota come GPA-Gestazione per Altri, quindi, non è affatto così naturale e così limpida come certi vogliono far credere. Infatti, alla base di tutto ciò vi è un contratto, puro e semplice, che viene stipulato nei minimi dettagli. In linea di massima, il contratto prevede una serie di obblighi in capo alla surrogante, che si impegna, ad esempio, a sottoporsi ad una serie di scrupolose visite mediche e a non intrattenere alcun tipo di rapporto intimo o sessuale durante tutta la durata del contratto. Sempre la surrogante, qualora dovesse per qualsiasi motivo violare il patto, viene obbligata a dover risarcire l’altra parte per tutta una serie di spese da questa sostenuti. Dal lato dei compratori, invece, sono previste alcune clausole che prevedono anche il diritto di far terminare la gravidanza entro 18 settimane, senza addurre alcuna giustificazione. Insomma, un contratto che sembra seguire le stesse identiche linee di un contratto di affitto o di comodato usuale.
Occorre ricordare anche che questa attività è riuscita a dare vita ad un vero e proprio business in alcuni Paesi esteri, che incrementano i loro guadagni sulla pelle delle donne, spesso indigenti e che vedono in questo strumento una via legale per poter andare avanti. In altre parole, una nuova forma di schiavitù legalizzata. Una schiavitù che fa leva sulla disperazione delle donne indigenti e sul desiderio quasi maniacale di avere un figlio a tutti i costi, volendone scegliere addirittura a priori alcune caratteristiche fisionomiche.
La cosiddetta maternità surrogata rappresenta un business da milioni di dollari in tutto il mondo, con aziende ad hoc che si occupano di gestire tutte le esigenze, offrendo spesso anche pacchetti più o meno convenienti. Secondo gli ultimi dati SIRU (Società Italiana della Riproduzione Umana), sono circa 3.000 ogni anno le persone che ricorrono alla fecondazione eterologa, e i costi variano da una base di 45.000-50.000 fino ad arrivare anche a 200.000 dollari per un singolo processo. Tutto ciò rappresenta un vero e proprio settore peculiare del mercato, che non coinvolge solo le cliniche a ciò deputate, ma anche delle aziende intermediarie ed altri attori come quelli delle assicurazioni o delle finanziarie, tanto da far parlare di “turismo procreativo”.
Un settore che continua a crescere e che continua a produrre profitti sulle spalle di donne che vengono sfruttate e che mettono anche a rischio la loro stessa salute pur di ricevere un cospicuo compenso. Ad oggi in Italia questo giro di sfruttamento è severamente vietato e punito dalla Legge n.40 del 2004, che prevede pene molto severe, reclusione da tre mesi a due anni e multa da 600.000 a un milione di euro, e che vieta altresì qualsiasi forma di pubblicità di tale pratica.
La legge deve essere osservata ed è per questo che il Governo Meloni intende tutelare ancora di più i minori e garantire loro una vita ottimale, senza negare loro alcun diritto, tanto da voler conferire al reato dell’utero in affitto un carattere internazionale. L’intento è anche quello di prevenire una lacerazione della concezione stessa di famiglia, il cui fulcro verrebbe inevitabilmente meno, e i danni che affliggerebbero i bambini venuti al mondo in un contesto del genere.
Occorre lottare per la tutela del minore come priorità assoluta affinché questa non venga mai messa in discussione, così che non si arrivi ad una situazione in cui il diritto delle famiglie omogenitoriali superi e metta in ombra il diritto del bambino di crescere con un padre e una madre.