Nei reparti di maternità degli ospedali, la frase che le mamme si sentono dire più spesso, quando sono costrette alle notti in bianco perché il bebè sembra calmarsi solo attaccato al seno o cullato tra le loro braccia, è più o meno questa: “Devi avere pazienza, è stato per nove mesi nel tuo grembo, è naturale che abbia bisogno di contatto”.
Quel bambino, in effetti, non conosce nulla del mondo in cui si è ritrovato catapultato se non l’odore, il tono della voce, il ritmo con cui batte il cuore della donna che l’ha custodito dentro di sé finché non è arrivato il momento per lui di venire alla luce.
Ed è per questo che il neonato inizialmente ha bisogno soltanto di sentire quel profumo, quella voce, quel cuore che batte, per orientarsi e sentirsi al sicuro. Nel suo soggiorno nell’utero materno, infatti, quel bimbo non ha ricevuto soltanto nutrimento. In quei nove mesi si è instaurata tra lui e la sua mamma una relazione speciale fatta di scambi ormonali, cellulari, emozionali che marchieranno per sempre i loro corpi.
E non si tratta di sentimentalismi. Il fenomeno ha un nome scientifico: microchimerismo. Diversi studi hanno dimostrato che, durante la gravidanza, alcune cellule del feto attraversano la placenta, entrano nella circolazione sanguigna della madre e si annidano nei tessuti dove resteranno per anni, forse tutta la vita.
Come si fa, quindi, a dire che partorire un bambino e separarsene immediatamente per affidarlo ad una coppia di “genitori committenti” possa essere un atto “indolore” e privo di conseguenze? Come si fa a considerarlo un fatto “naturale”? Come può non provocare una ferita profonda nella mamma e nel bambino?
Chi gestisce le cliniche che permettono, dietro pagamento di decine di migliaia di euro, di avere un figlio attraverso la gestazione per altri, evidentemente, non si fa di queste domande. Al contrario, la maternità surrogata viene presentata come un gesto di nobile altruismo: offrire sé stesse per soddisfare il desiderio di qualcun altro. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, la realtà è più cruda: si tratta di sfruttare un corpo dietro compenso.
In India, per fare un esempio, il business vale 2,3 miliardi di dollari l’anno e si regge su una schiera di donne poverissime che mettono a disposizione il proprio utero per guadagnare anche solo 3.500 dollari, la cifra minima offerta dai circuiti illegali. Nessun diritto, nessuna dignità. Il ventre trattato alla stregua di una incubatrice per generare un prodotto, considerato in fin dei conti come una merce. E se la “merce” risulta difettosa, si scarta. È il caso dei bimbi con sindrome di Down o dei gemelli che arrivano in sovrannumero rispetto a quelli desiderati: i casi di cronaca raccontati sulle pagine dei giornali testimoniano come alcuni committenti non si facciano scrupoli a chiedere “l’aborto selettivo”.
In Italia la maternità surrogata è vietata dalla legge 40 del 2004. Tuttavia, non è difficile accedere ai servizi proposti dalle cliniche per la fertilità che operano all’estero, dove la pratica è considerata del tutto legale: Stati Uniti, India, Ucraina e altri ancora. Fratelli d’Italia chiede di modificare la legge 40, per rendere il reato di surrogazione della maternità perseguibile anche se commesso fuori dai confini nazionali. La proposta di legge, in discussione alla Camera, punta a disincentivare ulteriormente il ricorso all’utero in affitto da parte di coppie italiane. La norma non sarà retroattiva, quindi nessun bambino nato finora con questa pratica sarà discriminato.
Il punto, infatti, non è quello di negare diritti ai minori e alle loro famiglie. E neppure di attaccare le coppie omosessuali (la maggior parte dei clienti delle cliniche che promuovono la surrogacy, infatti, sono etero). Si tratta di contrastare un business che si regge sullo sfruttamento e sulla umiliazione del corpo delle donne. Di fermare la mercificazione della vita umana. Di riaffermare che prima del desiderio di avere un figlio a tutti i costi, c’è il diritto di un bambino di conoscere sua madre, di sentire il suo profumo, la sua voce, di poter riconoscere il ritmo con cui batte il suo cuore.